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di Aaron Pettinari

Di Stasio e Sutera: “Evitata una faida”
“Da questo momento non uscire più di dentro perché non sei autorizzato a niente”. E’ questo il contenuto di un biglietto rinvenuto da Benedetto Buongusto di fronte alla propria abitazione. Era accompagnato da una testa di capretto con una cartuccia da caccia infilata nella testa. E’ questa una delle minacce esplicite che testimoniano il clima che si respirava all’interno della famiglia mafiosa di Monreale, inserita nel mandamento di San Giuseppe Jato che è uno dei territori più importanti nella zona della Sicilia Orientale. Contrasti inseriti in una lotta per il vertice del potere, iniziata immediatamente dopo l’ondata di arresti dello scorso marzo, con l’operazione “Quattro.Zero” che avevano messo in evidenza come nella zona di San Giuseppe Jato si erano create due fazioni. Dopo un periodo di fibrillazione ad imporsi era stato il gruppo guidato dall’anziano boss Gregorio Agrigento mentre a Monreale a detenere il controllo della famiglia era Giovan Battista Ciulla (arrestato lo scorso marzo), coadiuvato da figure come Onofrio Buzzetta, Nicola Rinicella e Giuseppe Giorlando.
Grazie alle indagini condotte dai carabinieri del “Gruppo Monreale” è emerso che, a causa dell’aggravarsi dello stato di salute di Agrigento, al vertice del mandamento si era fatto largo Ignazio Bruno. Quest’ultimo ha immediatamente raccolto “l’eredità” del padrino, prendendo in prima persona una serie di decisioni importanti anche per la ridefinizione dell’organigramma interno delle famiglie mafiose.
 


Le indagini condotte dai militari hanno evidenziato dunque i contrasti che erano maturati in seno all’organizzazione criminale che si erano acuiti con la scarcerazione di Benedetto Buongusto, avvenuta il 5 novembre 2014. Quest’ultimo, infatti, è stato avvicinato da Ciulla con l’intento di acquisire maggior forza. Un atto che non è piaciuto ai vertici del mandamento che già accusavano il capofamiglia di una malagestione del denaro (addirittura con somme che venivano trattenute dallo stesso anziché essere versate nella cassa del mandamento), e una mancanza di rispetto delle regole (non si presentava agli appuntamenti indetti dal capomandamento ed aveva una relazione extraconiugale con la moglie di un soggetto che era detenuto).
Ed è in questo contesto che, secondo quanto riferito dai carabinieri nella conferenza stampa odierna, sarebbe maturata l’idea di uccidere lo stesso Ciulla. Questi, con la vita messa a repentaglio, l’8 febbraio 2015 è persino fuggito in Friuli Venezia Giulia, nella provincia di Udine.


Un summit per ridisegnare il potere
Con Ciulla fuori dai giochi nasceva l’esigenza di individuare un nuovo responsabile a Monreale per la gestione degli affari. Così, su segnalazione della famiglia Lupo (il padre Domenico, imprenditore edile, ed il figlio Salvatore, sarebbe stata individuata la figura di Francesco Balsano, già figlio del capomafia Giuseppe Balsano (catturato nel 2002 dopo un periodo di latitanza e morto suicida in carcere).
La nomina avvenne il 25 febbraio 2015, in un summit presso un capannone nelle campagne di Monreale di proprietà di Domenico Lupo, a cui parteciparono anche esponenti del mandamento mafioso di San Giuseppe Jato come Girolamo Spina (nipote ed autista di Agrigento), Vincenzo Simonetti, Ignazio Bruno, Salvatore Lupo e, appunto, Francesco Balsano. Oltre alla nomina ufficiale di quest’ultimo venivano anche decise una serie di punizioni contro i “dissidenti” che erano vicini al Ciulla. Oltre alla testa di capretto Buongusto, il 3 marzo 2015, si è trovato coinvolto in una vera e propria spedizione punitiva quando, in una via di Monreale è stato preso a mazzate con un tubo di ferro che gli ha causato diversi traumi ed una frattura alla costola, con tanto di intervento chirurgico d’urgenza. Un’aggressione a cui parteciparono Balsano, Salvatore Lupo e Denaro Di Liberto, picchiatore “prestato” dai vertici di San Giuseppe Jato).
“A queste azioni sono poi seguite altre nei confronti di altri soggetti - ha riferito il tenente colonnello Pietro Sutera - Una vera e propria escalation di minacce ed intimidazioni. Il 6 marzo 2015, ad esempio, Francesco Balsano ha persino minacciato Onofrio Buzzetta, braccio destro di Ciulla, infilandogli in bocca una pistola e dicendo una frase ad effetto come ‘sono autorizzato ad ammazzarti per ora’. Altre minacce poi ci sono state anche per Rinicella con Balsano che addirittura avvisava che dagli altri ‘gli avevano detto di ‘spaccare le gambe’”.

Il soccorso di Corleone
2Di fronte a questa serie di episodi Buzzetta ha persino cercato aiuto presso un capomafia di spicco come Rosario Lo Bue, figura apicale del mandamento di Corleone. E’ grazie all’intervento di quest’ultimo, infatti, che nei suoi riguardi non viene più effettuato alcun atto intimidatorio. Un segno chiaro che, comunque, proprio la famiglia di Corleone riveste un ruolo importante in seno all’organizzazione criminale. Nonostante la “calma apparente” con il Ciulla che aveva persino fatto rientro alla base accettando un ruolo defilato, i pericoli per l’inizio di una vera e propria faida erano molteplici. E’ evidente in alcune intercettazioni tra Salvatore Lupo, divenuto di fatto capo della famiglia mafiosa di Monreale, e Giovanni Pupella, capodecina con un ruolo importante nella gestione del traffico di stupefacenti. Proprio quest’ultimo, infatti, preoccupato di una riorganizzazione che stava portando avanti Benedetto Buongusto, consigliava Lupo di compiere anche atti violenti: “Totò loro devono Buscarle, Totò, e basta, Totò, a lodo non dobbiamo.. non dobbiamo far capire nulla, o frate, noialtri… Loro devono buscarle.. loro devono rimanere a piedi…”. Ed ovviamente Lupo si apprestava a chiedere l’autorizzazione ai vertici del mandamento.
“Nel corso di questi mesi più volte sono stati compiute delle operazioni mirate con conseguente sequestro di armi in dotazione ad entrambe le fazioni - hanno ribadito sia Sutera che il colonnello Di Stasio - Abbiamo evitato una faida che poteva portare ad un certo numero di morti. Abbiamo trovato cartucce di vario calibro, pistole, fucili con matricola abrasa, armi modificate”.

Gli affari, nonostante la crisi, di Cosa nostra
L’operazione odierna ha anche permesso di ricostruire il ramo degli affari delle famiglie mafiose nel territorio del mandamento. Gran parte del denaro, frutto delle attività illecite, veniva a sua volta reinvestito nello spaccio di sostanze stupefacenti e nella realizzazione di una vasta piantagione di marijuana nelle campagne di Piana degli Albanesi. Ed è in questo contesto che nell’agosto 2015 vennero arrestate due persone, Michele Mondino e Gaetano Di Gregorio, con il recupero di ben 900 piante di cannabis. “Abbiamo effettuato alcuni calcoli e dalle piante sequestrate sarebbe stato possibile ricavare circa 150kg netti di sostanza - hanno proseguito i due ufficiali - Da queste si potevano ricavare 55mila dosi da immettere nel mercato per un guadagno di denaro pari a quasi un milione di euro”. Un ritorno agli affari di droga, da parte della mafia, che con costi minimi può portare a grandissimi profitti. “Non solo - ha proseguito Sutera - Abbiamo ravvisato delle vere e proprie modalità di appalto dell’attività a tutti i livelli. Non solo si affidava a certi soggetti la coltivazione dello stupefacente ma si consigliava anche a quale elettricista appoggiarsi per la realizzazione dell’impianto necessario, a chi poteva fornire i giusti materiali, le lampade alogene e quant’altro”. Ovviamente non mancavano anche attività “tradizionali” come le attività estorsive.

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