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galatolo vito eff zoomdi Miriam Cuccu
Vito Galatolo, pentito ed ex capomandamento dell'Acquasanta, va ai domiciliari nonostante il parere contrario del gup Giuseppina Cipolla. A deciderlo il Tribunale del Riesame che ha accolto il ricorso avanzato dal legale Fabrizio Di Maria. Anche se non sono ancora rese note le motivazioni, il ricorso sarebbe stato accolto sulla base del venir meno delle esigenze cautelari. Le valutazioni in merito riguardano la reiterazione del reato, l'inquinamento probatorio e la pericolosità sociale. Tutte misure che sarebbero rispettate con la disposizione del riesame.
Galatolo, che collabora da novembre 2014, nel processo “Apocalisse” (dalle omonime operazioni di giugno 2014 e febbraio 2015) è stato condannato a 6 anni e 8 mesi di reclusione, senza che gli fosse riconosciuta l'attenuante speciale prevista per i collaboratori di giustizia in quanto considerato “reticente ed elusivo”. Secondo il gup, infatti, le dichiarazioni di Galatolo non sarebbero state decisive nella ricostruzione dei fatti e nell'individuazione degli autori dei reati. In particolare per il giudice l'ex boss non avrebbe menzionato le presunte responsabilità di persone a lui vicine, così da potersene servire per gli scopi di Cosa nostra, con la quale stando alle valutazioni di Cipolla il pentito non avrebbe reciso tutti i legami.
Nello specifico secondo il giudice Galatolo, che ha contribuito a una serie di indagini facendo i nomi di diversi mafiosi, avrebbe cercato di proteggere due personaggi: Santo Graziano e Filippo Matassa, condannati rispettivamente a 8 anni e 8 mesi ed a 12 anni e 8 mesi, sempre in “Apocalisse”. Filippo e il fratello Agostino sono considerati esponenti di vertice della famiglia mafiosa del quartiere Acquasanta. Matassa e Graziano avrebbero mantenuto Galatolo, con l'invio di denaro durante il soggiorno forzato di Mestre, città in cui si era trasferito dopo la sua scarcerazione. In più, non sarebbero stati provati a sufficienza i rapporti economici con la famiglia Graziano, secondo il pentito soci d'affari, con quella dei Galatolo.
Per la Procura c'era stato il parere favorevole sulla concessione dei domiciliari a Vito Galatolo, in quanto il pubblico ministero Roberto Tartaglia (tra i pm del processo trattativa Stato-mafia) aveva evidenziato la coerenza e l'affidabilità, corroborate dai riscontri forniti dal collaboratore che per primo aveva rivelato l'esistenza di un piano di morte nei confronti del pm Nino Di Matteo. Così erano iniziate le sue dichiarazioni, a novembre 2014 a seguito dell'arresto nel maxi blitz “Apocalisse”. Quelle rivelazioni confessate per togliersi “un peso dalla coscienza” sono sfociate in una vera e propria collaborazione in cui il pentito ha raccontato di entità esterne a Cosa nostra che diedero l’input per progettare l’uccisione di Di Matteo. Soggetti ancora senza volto né nome ma che l'ex boss avrebbe definito come “gli stessi di Borsellino”. E del fatto che sarebbe stato proprio Matteo Messina Denaro, ultimo superlatitante di Cosa nostra, a dare l'ordine di uccidere il pm di Palermo perchè “si è spinto troppo oltre”, attraverso una lettera per chiedere formalmente alle famiglie mafiose del capoluogo siciliano di organizzare l'attentato. E quell'ordine, aveva assicurato Galatolo, non era mai stato revocato. Poi il pentito ha parlato anche del tritolo acquistato dalle cosche con una colletta, e mai finora ritrovato nonostante le indicazioni di Galatolo sui luoghi in cui cercare. In merito alla vicenda, però, secondo il giudice Cipolla non sarebbero a disposizione i riscontri necessari a causa delle esigenze investigative legate alle verifiche in corso da parte degli inquirenti.

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