Il caso Attilio Manca e quello di Giulio Regeni: due giovani italiani, una diversa Patria
di Luciano Armeli Iapichino
In questi mesi l’informazione nazionale ha fatto quadrato intorno ad uno dei misfatti più terrificanti accaduti dal tempo del nazifascismo: il martirio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano dell’Università di Cambridge scarnificato in circostanze misteriose in Egitto e sulla cui vicenda è detonata una vera e propria bomba diplomatica tra il Governo italiano e Il Cairo. L’Italia ha attivato una determinata azione di mobilitazione totale a vari livelli per far luce il prima possibile sulla verità dell’atroce delitto e ottemperare, quanto prima, alla richiesta di una concreta risposta alla famiglia. Una nazione, una moderna “democrazia”, il suo Capo dello Stato, il suo Presidente del Consiglio, il suo Ministro degli Esteri, i suoi massimi rappresentanti si sono mostrati, sino adesso, con straordinaria fermezza a fianco di quei cittadini, una madre e un padre, cui l’incubo più atroce, quello di indicibili ed efferate modalità di tortura attuate sul proprio figlio, si è d’improvviso concretizzato nella loro vita.
Cambiamo spazio e misfatto lasciando inalterate le coordinate temporali.
16 aprile 2016. A Gioiosa Marea, nel messinese, il magistrato Michele Prestipino in un convegno dal titolo Legalità e Mafia, organizzato dal Salotto Culturale H2O Donna, incontra la cittadinanza. Ad intervistarlo i giornalisti Sergio Granata e Luciano Mirone. Il dott. Prestipino non è un magistrato di secondo piano; è il Procuratore aggiunto di Roma che conosce bene i segreti di Mafia Capitale. Non solo. È stato anche uno dei magistrati che a Palermo ha incastrato, consegnandolo alle patrie galere, il boss dei boss siciliani, Bernardo Provenzano, dopo decenni di latitanza. Dunque, nell’olimpo dei magistrati che hanno spazzato quella criminalità che ha operato a “certi livelli” e che ha scritto capitoli inquietanti nella Storia della mafia di questo Paese, Michele Prestipino riveste un nome di un certo rispetto.
A Gioiosa Marea, suo paese natio, il magistrato ha dialogato con i giornalisti sui meccanismi sociali punitivi inerenti alle dinamiche del “pizzo”; ha annoverato fatti concreti legati alla comunicazione del sistema mafioso (i pizzini del boss delle Madonie, Giuffrè, indirizzati a Provenzano) e al potere della criminalità connesso ai “crediti” originati dai favoritismi dell’antistato (il gioco delle due porte); ha raccontato aneddoti su Angelo Siino, il “ministro” dei lavori pubblici di Cosa Nostra; ha ricordato importanti retroscena dei sequestri di persona in Aspromonte e ha ampiamente illustrato la storia del fenomeno mafioso a partire dall’800 ad oggi, evidenziando come l’unica differenza tra le mafie di ieri e quelle di oggi, oltre alla tendenza di quest’ultime a evitare, ove possibile, l’omicidio eclatante, consiste nel controllo dei diversi canali di accumulo della ricchezza, annidata di questi tempi nella gestione dei servizi (l’accoglienza dei migranti per fare qualche esempio). Tutto legittimo e interessante. Platea attenta e coinvolta.
Caso vuole che il giornalista Luciano Mirone, voce autorevole del giornalismo d’inchiesta che vanta un curriculum di tutto rispetto nelle pubblicazioni inerenti al macrocosmo “Mafia”, suo il volume Gli insabbiati: storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall'indifferenza, Roma 2008, si accinga, a un certo momento, ad articolare una domanda su uno dei misfatti di certo tra i più atroci, unitamente al caso Regeni, che relegano la nostra “democrazia” nel baratro dei Paesi a regime dittatoriale sudamericano degli anni ’60 e ‘70: la morte dell’urologo siciliano Attilio Manca, morto anch’egli martirizzato a Viterbo nel 2004 in circostanze misteriose, sulla cui storia aleggerebbe lo spettro della latitanza e dell’operazione alla prostata di Bernardo Provenzano.
Il giornalista, autore anche di una meticolosa inchiesta sulla vicenda Manca (Un suicidio di mafia. La strana morte di Attilio Manca, 2014) nell’articolazione della sua domanda al magistrato, muovendo dalle vicende di Giuseppe Fava e di Nitto Santapaola a quelle delle complicità di certe Istituzioni nella latitanza dei boss, dal ruolo della mafia di Barcellona Pozzo di Gotto nello scacchiere criminale nazionale alle lacunose indagini della magistratura di Viterbo sul caso Manca, come fulmine a ciel sereno, è interrotto da un tale che, paventando nell’intervento l’ipotesi di una inopportuna pubblicizzazione del suo libro, invita Mirone a dibattere su cose più sostanziose e di oltrepassare sui risaputi e inquietanti retroscena della Cosa Nostra barcellonese e sui dettagli autoptici del cadavere di Attilio Manca.
Un'iniziativa che, di fatto, crea una gran confusione nella platea e rischia di banalizzare la serietà della ricostruzione del caso Manca fatta finora da Mirone.
Risultato: animi surriscaldati.
In sala, sono presenti anche Angela e Gino Manca, che giunti da Barcellona Pozzo di Gotto alla ricerca di conforto per la presenza di Prestipino, che tanto ha fatto nella lotta a Cosa Nostra, e di speranza nella risoluzione dell’enigma del figlio, assistono sgomenti per l’inopportuna interruzione (dalla platea) al giornalista Mirone che, a tavolo dei relatori, sembra assumere via via le sembianze di un “intruso” o quanto meno di un ibrido, relatore-intervistatore, sganciato dalla linea tematica tenuta dagli altri interlocutori sino a quel momento.
È stata un’impressione, certo, ma il tono della risoluta risposta del Dott. Prestipino alla domanda di Mirone che con serenità d’animo chiedeva, semplicemente, se sul caso Attilio Manca si potesse prima o poi giungere ad una verità definitivamente appurata da prove oggettive, ha alimentato la mestizia nel cuore di quei genitori che di colpo chinano il capo, accoltellati in profondità dall’applauso in quel momento certamente inopportuno che il pubblico ha riservato al giudice:
“Io appartengo a quella categoria di magistrati che non rilasciano informazioni in fase di indagine.”
Punto. Chiuso il convegno.
Legittima risposta! Sul piano formale sicuramente. Sul piano umano, di certo, una caduta di stile.
La domanda posta da Mirone, di certo, non entrava nel merito del segreto istruttorio e sottointendeva un taglio più squisitamente intellettuale e umano per l’appunto, che in presenza dei familiari del giovane urologo poteva pacatamente trovare risposte dal magistrato in termini di un nuovo impegno o slancio investigativo a prescindere dagli esiti finali. In Commissione Parlamentare Antimafia, Prestipino, prima che acquisisse l’indagine su Attilio, aveva sottolineato che “Quella vicenda (il viaggio a Marsiglia di Provenzano sotto falso nome) è stata ricostruita, passatemi il termine, minuto per minuto e tutti i soggetti coinvolti che hanno commesso reati sono stati condannati con sentenza passata in giudicato grazie alle intercettazioni, alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e agli atti acquisiti con una rogatoria presso l’autorità giudiziaria di Marsiglia, alla quale ho personalmente partecipato.” Legittimo anche questo. Per quel tempo!
Ma alla luce delle dichiarazioni di Lo Verso e Giuseppe Setola ma soprattutto quelle rese dal pentito Carmelo D’Amico, esponente dell’ala armata della Cosa Nostra barcellonese, alla D.D.A di Messina nell’ottobre del 2015, secondo il quale l’urologo barcellonese avrebbe curato il boss Provenzano attraverso una mediazione dell’avvocato barcellonese Rosario Cattafi, e poi sarebbe ucciso da un appartenente ai servizi segreti, denominato “u calabrisi”, coinvolgendo, altresì, nella sua deposizione pezzi deviati dello Stato, (che aprono scenari tanto nuovi quanto inquietanti sulla morte di Attilio Manca), un approfondimento giudiziario può comunque trovare una motivata ragione di esistere.
Attilio come Giulio sul Golgota della crocifissione. Diversi, però, sul piano della mobilitazione concreta delle Istituzioni finalizzata al raggiungimento della verità.
Attilio, in questo caso, è stato ancor più sfortunato di Giulio. L’Egitto sembra avercelo in casa!
E la sua Patria all’estero.
Eppure nella sua morte molte cose non tornano: indagini ferme ad uno stato embrionale, la richiesta dei tabulati telefonici da parte dei familiari rimasta inevasa, referti autoptici lacunosi, l’assenza del medico siciliano all’ospedale Belcolle di Viterbo nello stesso periodo in cui Provenzano si recava ripetutamente a Marsiglia, i buchi di inoculazione del mix letale di eroina e tranquillanti sull’avambraccio sinistro di un medico che non faceva (almeno così ha dichiarato buona parte del personale medico e paramedico in servizio al Belcolle) uso di droghe e che era mancino puro.
Una domanda tra tutte verrebbe da porre:
Chi ha diagnosticato il tumore al capo dei capi di Cosa Nostra e chi lo ha curato dopo? O semplicemente: perché è morto Attilio Manca? Possibilmente, quest’ultimo interrogativo corredato con una verità gravida di prove oggettive.
A Gioiosa Marea i genitori di Attilio hanno raccolto poco. Gino ha cercato di chiedere inutilmente se il Dott. Prestipino avesse dei figli; Angela ha lasciato sul tavolo dei relatori, non atti o documenti, processuali, semplicemente la foto della maschera insanguinata e tumefatta del volto di Attilio.
L’ha ripresa con sé. Il suo cuore le ha imposto di non lasciare Attilio da solo ancora una volta.
Entrambi confidano ancora in un’azione di Prestipino e Pignatone che possa, concretamente e definitivamente, cristallizzare nuove verità su una vicenda che continua a sconvolgere l’opinione pubblica, devastare l’anima di una famiglia, mortificare una civile “democrazia”.
In qualche trascendenza, nell’attesa di verità certe, processi veri, indagini scrupolose e magistrati che hanno legato il loro nome ad una coscienziosa professionalità, Attilio e Giulio si daranno forza per darla, a loro volta, alle loro famiglie frantumate da incommensurabile sofferenza.
Del resto, tutti i protagonisti di queste storie hanno una carta d’identità italiana.
In foto: il magistrato Michele Prestipino e il giornalista Luciano Mirone