Ex reggente del mandamento di Tommaso Natale
di Miriam Cuccu
Si era pentito lo scorso ottobre, dopo un anno di carcere duro. Ora Silvio Guerrera, considerato reggente della famiglia di Tommaso Natale, sta raccontando ai pubblici ministeri Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi e Roberto Tartaglia gli assetti criminali ed economici del suo territorio. Zona in cui l’ex boss aveva un ruolo di prim’ordine, eppure non era lui a farla da padrone: i veri capi erano Francesco Caporrimo e Girolamo Biondino (quest’ultimo tra gli arrestati dell’operazione “Apocalisse”del giugno 2014, insieme allo stesso Guerrera). Il suo era un ruolo “border line”, in quanto sebbene fosse tra i più alti in grado, in particolare per la gestione di alcuni affari, per altre questioni non veniva interpellato. Come quando, il 9 dicembre 2012, Guerrera sarebbe stato bruscamente congedato in occasione della riunione per il progetto dell’attentato al pm Nino Di Matteo.
Ma c’è un altro episodio, depositato nei verbali, che il neo pentito ha raccontato ai pm di Palermo: “Il titolare di una pompa di benzina in via Regione Siciliana aveva subito una rapina e si rivolse a Francesco Caporrimo per sapere chi era stato. Caporrimo mandò Sardisco ed Erasmo Enea a chiedere notizie a Chianchiano dello Zen”. Voleva essere l’ex boss, infatti, a risolvere la questione della rapina non autorizzata. In seguito, ha spiegato Guerrera, “quando Chiachiano si presentò da me, per sapere se ne sapevo qualcosa, andai subito da Caporrimo per lamentarmi, perché non ero stato avvisato di questa visita allo Zen, mio territorio. Mi sentii male per la rabbia e Calvaruso, vedendomi così alterato, mi propose di andare a picchiare Sardisco. Cosa che poi avvenne”.
Guerrera ha poi raccontato gli affari a Tommaso Natale gestiti dai Caporrimo: “Hanno delle quote in una discoteca di Ficarazzi”, per la cui rifornitura di piante ci pensava “un vivaio di tale Cracolici, che si trova a Tommaso Natale, pagava 1000 euro di pizzo al mese. Poi, però, quelle piante non furono pagate dai Caporrimo e allora il titolare del vivaio non consegnò il pizzo per qualche tempo”. Oltre a loro, molti altri commercianti: “Il titolare dello Scalea club, Gaspare Messina”, poi “Giulio Vassallo (proprietario del bar Gardenia, ndr)”, i supermercati “Mad” (2mila euro) ed “Elenka” (3mila euro). E il ristorante “Il Delfino”, al quale Cosa nostra imponeva il tovagliato. Del resto, anche l’ultima relazione semestrale della Dia aveva evidenziato il fatto che il racket e l’usura “continuano a rappresentare le modalità attraverso le quali le consorterie assicurano nell’immediato un tornaconto economico e l’asservimento delle vittime”.
I prestanome erano ovunque, dai centri scommesse alle imprese per l’edilizia. In particolare Guerrera ha parlato di tale “Mesia, che avevamo favorito nell’aggiudicazione di alcuni lavori di scavo per la realizzazione di diverse villette a Fondo Amari” e che “ci aiutava per la riscossione del pizzo dall’imprenditore che stava curando l’opera. Un pizzo da 60 mila euro”.
Non tutti gli imprenditori, però, chinavano il capo di fronte a Cosa nostra. Uno di questi, tale Salvatore Taormina, “non si sottomise al pagamento neanche dopo un attentato”. Alcuni andarono da lui anche se, ha detto Guerrera “spiegai che era iscritto ad Addiopizzo”. Loro andarono ugualmente, l’imprenditore sporse denuncia e furono arrestati.
Tra gli appalti gestiti dalla famiglia mafiosa, anche quello per le pulizie dello stadio. Ci fu un incontro, ha raccontato Guerrera, con “l’imprenditore Abbate (presentatogli da Giuseppe Fricano, capomandamento di Resuttana, ndr) che aveva preso l’appalto per le pulizie in un albergo in zona Addaura e in un altro a Mondello, il Palace, dunque nel mio territorio. Fricano l’aveva favorito per fargli prendere l’appalto per le pulizie allo stadio e Abbate si era reso disponibile ad assumere delle persone”. L’accordo si concluse con quattro assunzioni e il pagamento di 2mila euro di pizzo.