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di Miriam Cuccu
Addiopizzo: “Ora ci sia sostegno dai cittadini”
Le cose sembrano essere cambiate da quando Libero Grassi combatteva la sua battaglia solitaria contro il racket. Almeno a Bagheria. Inizialmente erano in tre, poi sono diventati trentasei: imprenditori vessati dal pizzo e dalle minacce, alcuni ridotti sul lastrico o in stato di semi-indigenza. Tutti di Bagheria, tutti sottomessi agli stessi boss mafiosi che battevano cassa, specialmente a Pasqua e a Natale, per mantenere le famiglie dei mafiosi detenuti.
Poi gli imprenditori bagheresi hanno deciso di parlare. Una vera e propria svolta, aria nuova e pulita dopo gli ultimi avvenimenti che hanno gettato un’ombra sui servizi preposti alla difesa della legalità, dall’inchiesta sulla gestione dei beni confiscati a quella per concorso in mafia che riguarda il leader di Confindustria Antonello Montante, fino ad arrivare alla condanna per estorsione nei confronti di Roberto Helg, ex presidente della Camera di Commercio di Palermo.
Uno dopo l’altro, gli imprenditori hanno varcato la soglia della Caserma dei Carabinieri e hanno raccontato dieci, vent’anni di vita trascorsa all’ombra della paura, nel comune alle porte di Palermo in cui l’allora latitante “Binnu” Provenzano, ha dichiarato il sindaco M5s di Bagheria, Patrizio Cinque: “Ha abitato per un periodo in una casa popolare di Bagheria senza che il Comune se ne accorgesse o, magari, volesse rendersene conto”.
Ai vertici del mandamento, che si espande fino a Villabate, Casteldaccia e Ficarazzi, vecchi boss già conosciuti come Nicolà Eucaliptus, Onofrio Morreale, Pino Scaduto. I padrini, nonostante fossero detenuti, non avevano mai smesso di “amministrare” le varie attività illecite, mentre coloro che andavano a chiedere il pizzo, ha spiegato il procuratore aggiunto di Palermo Leonardo Agueci, si alternavano in una sorta di “staffetta”. “Quando gli esattori vengono arrestati – ha spiegato – subentrano altri che poi finiscono in cella, in un alternarsi continuo”.
Tra i commercianti che dopo anni di silenzio hanno deciso di ribellarsi al giogo mafioso c’è anche chi, di racket, ci è morto. È la tragica storia di Giuseppe Sciortino, il costruttore che si è impiccato a Bagheria a marzo dello scorso anno dopo aver denunciato i suoi estortori, ancora prima dell’operazione “Reset” (scattata tre mesi dopo il suicidio) che ha sferrato un duro colpo al mandamento di Bagheria. Ieri, invece, è stata la volta di “Reset 2”, blitz coordinato dai pm Leonardo Agueci, Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli che ha prodotto 22 ordinanze cautelari per altrettanti soggetti (quasi tutti già in carcere) accusati, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, sequestro di persona e danneggiamento a seguito di incendio.
Qualche commerciante si ritrovava persino la porta dell’impresa chiusa da un catenaccio. Storie di aziende floride che, una dopo l’altra, sono state spolpate dalle continue richieste sempre più esose. È il caso del cantiere di Domenico Toia, imprenditore avvicinato da Cosa nostra già alla fine degli anni Ottanta, quando il suo impero imprenditoriale andava a gonfie vele. Nel 2013 è stato uno dei primi a parlare, raccontando di essere stato costretto a versare tre miliardi di lire al mese nelle casse della mafia. Poi, nel tempo, la situazione era precipitata e Toia aveva dovuto vendere la villa di sua proprietà. Dopo anni di sottomissioni aveva trovato il coraggio di denunciare, poi è morto lo scorso anno di un’improvvisa malattia.
Di grande rilevanza, affinchè i commercianti prendessero coraggio per sporgere denuncia, è stato il ruolo svolto dalle associazioni antiracket del territorio: "In questi ultimi anni abbiamo assistito a un crescendo di denunce contro il pizzo – ha detto Enrico Colajanni, presidente di Addiopizzo – basti pensare che dal 2008 oltre 300 persone si sono rivolte ad Addiopizzo e Libero Futuro, e la metà dei casi, circa 150, tra commercianti e imprenditori, hanno avuto esito processuale. Il resto sono stati assistiti dalle nostre associazioni a vario titolo. I numeri di Bagheria, però pesano doppio” perché, ha spiegato, “la società civile è più intimorita”.
Fondamentali, poi, sono state le dichiarazioni del pentito Sergio Flamia (proprio il cugino dell’ex boss, Pietro Giuseppe detto “il porco”, è stato arrestato ieri, ndr) che a Bagheria hanno permesso di ricostruire gli assetti del clan. “Questa è la quinta operazione antiracket in quel territorio – ha continuato Colajanni – le collaborazioni degli imprenditori vessati dalla mafia si stanno rivelando preziose. E' un concorso di fattori che rende la situazione di quel comune quasi irripetibile altrove, ad esempio nelle province di Trapani o Agrigento dove la società civile è più resistente e il controllo del tessuto economico più forte. Naturalmente speriamo in un cambiamento in senso opposto, ma lì il contesto è diverso”. “E poi – ha aggiunto Daniele Marannano, sempre di Addiopizzo – c'è il fattore della crisi economica, che indubbiamente quasi costringe gli operatori commerciali a denunciare, perché non possono materialmente far fronte neppure al più piccolo dei balzelli illeciti. Il concatenarsi di tutti questi fattori è stato decisivo per abbattere il muro dell'omertà”. Ora, ha concluso il portavoce dell’associazione antiracket, “mi aspetto un impegno da parte dei cittadini, dei consumatori, che aiutino con i loro acquisti i commercianti che denunciano”.
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