A Valderice, sentenza in mano, il ricordo del giornalista ucciso dalla mafia
di Aaron Pettinari e Lorenzo Baldo
"Sconcertanti anomalie, gravi negligenze nelle prime indagini e misteriose sparizioni”. E' il titolo di uno dei capitoli scritti e divisi nelle oltre tremila pagine di sentenza Rostagno e già basta per dare una prima idea del perché si sia arrivati ad avere giustizia sulla morte del giornalista con oltre vent'anni di ritardo. Tra venerdì e sabato la comunità trapanese si è stretta nel ricordo di un uomo che, con le sue battaglie, non solo informava ma si era fatto ispiratore di un cambiamento sociale. Così le associazioni “Ciao Mauro”, da sempre impegnata nella richiesta di verità e giustizia, “Libera” ed “Articolo21” hanno organizzato una Tavola Rotonda, al Molino Excelsior, sul tema “Anatomia della Sentenza Rostagno. Prima parte: i depistaggi”. Relatori dell'incontro il giornalista Rino Giacalone e la senatrice Rosaria Capacchione, membro della Commissione Parlamentare Antimafia e della Commissione giustizia al Senato.
Il video
Le immagini della sera dell'attentato, il sedile sporco di sangue, le riprese del funerale, i reportage che lo stesso Rostagno effettuava denunciando gli affari che i boss sviluppavano con il traffico di stupefacenti, denunciando gli accordi sotto banco della politica, dando voce a chi non ne aveva, hanno rappresentato il modo migliore per introdurre la serata, restituendo la memoria di chi, senza timore e con irriverenza, non ha mai avuto paura di schierarsi. Una memoria e un impegno confluiti anche nel nuovo documentario su Rostagno firmato da Alberto Castiglione “La rivoluzione in onda”, presentato ieri a Erice e a Trapani dall’associazione “Saman”.
Una sentenza
La memoria passa necessariamente dallo studio delle carte della sentenza che hanno portato alla condanna dei boss Vincenzo Virga come mandante e di Vito Mazzara come killer. “Noi – ha detto in apertura Giorgio Zacco, presidente dell’associazione “Ciao Mauro”, – pensiamo che le motivazioni di questa sentenza non debbano rimanere chiuse negli armadi del Tribunale, per essere lette soltanto dagli addetti ai lavori, giudici, avvocati, poliziotti e giornalisti e, un domani, dagli storici. Noi pensiamo che i cittadini debbano conoscere quello che sta scritto nelle sentenze di mafia e in quelle sulle stragi, e che queste sentenze devono servire anche a scrivere la nostra storia e, soprattutto, aiutarci a costruire la nostra memoria condivisa”. E poi ancora: “L'impegno nostro e delle nostre istituzioni non deve, e, soprattutto, non può limitarsi a ricordare le vittime di mafia e delle stragi, una volta l'anno con delle cerimonie più o meno sentite e partecipate. Il rischio che corriamo è che in questo modo mettiamo a posto la nostra coscienza; poi la vita scorre come prima e la memoria si indebolisce, infine l'oblio del tempo farà il resto. Su questo contano i mafiosi, i malfattori, i corrotti, i depistatori, gli stragisti, i politici collusi e tutta la zona grigia dei conniventi, che prosperano sul malaffare, sulla corruzione e sull'economia criminale. Noi dobbiamo impegnarci a leggere le sentenze, metterle in relazione tra loro, per capire cosa è successo e perché è successo, per poi scrivere la nostra storia; per capire chi siamo e come è stato possibile che la nostra terra meravigliosa abbia generato l'immonda bestia mafiosa, ma come, soprattutto, ancora oggi essa possa vivere e prosperare accanto a noi”. Zacco ha quindi spiegato che il depistaggio perpetrato a danno delle indagini sull’assassinio del sociologo torinese è avvenuto anche “per l’assenza della società civile”. Come è noto a tutt’oggi - nonostante l’urgenza rappresentata dal presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage del 2 agosto 1980, Paolo Bolognesi - esiste una proposta di legge sul reato di depistaggio che giace al Senato in attesa di essere convertita definitivamente in legge.
L'idea per le associazioni che in questi anni sono state vicine alla famiglia Rostagno è chiara. Far sì che le pagine della sentenza entrino nei programmi delle scuole, “affinché i nostri ragazzi abbiano maggiori opportunità di diventare cittadini responsabili e consapevoli, non per - come ebbe a dire lo stesso Rostagno - trovare un posto in questa società, ma per creare una società in cui valga la pena di trovare un posto”.
Il depistaggio
L'impegno di questi anni è stato profuso per il processo, a partire da quelle diecimila firme raccolte dopo aver ascoltatole parole dell'ex capo della Mobile Linares che apriva ad un integrazione d'indagine sull'omicidio. Perché la mancata verità sulla morte del sociologo rappresentava un vuoto da colmare. Un vuoto creato ad arte proprio attraverso ai depistaggi che, via via, sono stati sviluppati. Dal canto suo il sindaco di Valderice, Girolamo Spezia, si è appellato ai parlamentari affinché la sentenza Rostagno diventi materia di studio alla Commissione antimafia in attesa di una immediata approvazione della legge sul reato di depistaggio.
“Alla fine si è arrivati ad una certezza ed i giudici la mettono nero su bianco nell'epilogo della sentenza evidenziando l'inconsistenza di piste alternative a quella mafiosa”, ha ricordato il giornalista Rino Giacalone. A lui è toccato il compito di spiegare come si è articolato il depistaggio. Un elenco di ventisette punti che sono stati affrontati con meticolosità durante il dibattimento. Si è scoperto ad esempio che la telefonata in cui si segnalava una sparatoria in corso a Lenzi, giunta ai carabinieri di Napola, non era anonima ma proveniva da Antonio Scalabrino, insegnante di matematica di Trapani. Una testimonianza chiave che è emersa con enorme ritardo. A rendere più inquietante la circostanza vi è il fatto che lo stesso Scalabrino ha ricordato di essere stato interrogato la sera stessa dell'omicidio, ed anche qualche giorno successivo, da individui in borghese qualificatisi come appartenenti alle forze dell'ordine. “In questi anni di dibattimento – ha aggiunto Giacalone – le piste le abbiamo affrontate davvero tutte ed è apparso evidente come fosse davvero la mafia a volere la morte di Mauro Rostagno. Viene individuato come momento cruciale il processo sulla morte del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari. Un processo che Rostagno seguiva in maniera integrale su Rtc, irridendo il boss Mariano Agate”. Ma la sentenza Rostagno rappresenta anche un pezzo di storia d'Italia, specie nel capitolo in cui si parla della pista che portava al traffico d'armi. “I giudici scrivono che 'Bisognava mettere a tacere per sempre quella voce che come un tarlo insidiava e minava la sicurezza degli affari e le trame collusive delle cosche con altri ambienti di potere'. Inoltre la corte presieduta da Pellino parla chiaramente di 'torsione nelle finalità istituzionali degli apparati di intelligence che si consuma proprio in quegli anni e che ha a Trapani, con la costituzione dell’ultimo Cas nella storia di Gladio, un suo epicentro, crea un terreno propizio all’instaurazione di sordidi legami tra alcuni esponenti dei Servizi e ambienti della criminalità organizzata locale'”. E tra gli episodi inquietanti Giacalone ha ricordato che quando vengono sentiti i funzionari dei servizi in merito ai voli che si facevano verso la Somalia questi hanno risposto semplicemente che in quei viaggi si trasportavano 350kg di materiali di cancelleria. Possibile che in quel periodo di fuoco si possa credere che vi fosse tanto bisogno di carta e di penne? Un aspetto, quest'ultimo, che andrebbe approfondito nelle dovute sedi. “Tuttavia – ha continuato Giacalone - i giudici scrivono come sia stata soprattutto Cosa nostra responsabile della morte del giornalista. Un altro elemento di prova è dato dal boss Francesco Messina Denaro il quale, parlando con un mafioso mazarese, disse: 'chiddu ca varva bianca ava a finire'”.
Le sparizioni
Tornando sui depistaggi Giacalone ha sottolineato come la Corte non abbia usato la parola specifica ma abbia individuato un elenco di “sparizioni” (“Un leit motiv della storia di tante indagini come ad esempio è sparito il fascicolo sulla visita militare che Matteo Messina Denaro ha compiuto negli anni Ottanta. Ci sono tutti quelli dei suoi commilitoni ma di lui nulla più”). In totale sono 27 le scomparse misteriose. Dalla videocassetta con la scritta “Non toccare” che Mauro Rostagno teneva sulla propria scrivania a Rtc, le audiocassette con analoga scritta che conservava alla Saman, le lettere dell'epistolario con Renato Curcio, le registrazioni delle telefonate di minaccia, i rilievi dattiloscopici eseguiti sul cadavere di Vincenzo Mastrantonio usati per confrontare i reperti sequestrati sui luoghi dell'omicidio, gli appunti manoscritti di Rostagno sull'inchiesta Scontrino, il memoriale sul caso Calabresi, il proiettile della calibro 38 estratto nel corso dell'autopsia del corpo di Rostagno. Poi ancora non si è proceduto alla delimitazione della scena del crimine, al prelievo delle impronte sul luogo del delitto, non vi è alcun verbale di repertamento del contenuto della borsa di Rostagno, l'assenza di fotografie del lato destro della Duna, l'auto guidata da Rostagno la sera del delitto, la stessa mancanza dell'auto (andata distrutta, ndr) o il mancato sequestro degli indumenti che il giornalista aveva addosso quel 26 settembre 1988. Inoltre non sono stati interrogati alcuni potenziali testimoni del delitto, non sono stati effettuati rilievi tecnici né relazioni di servizio sulle cause del presunto guasto che aveva portato all'interruzione della corrente dell'illuminazione pubblica la sera dell'agguato. A questi si aggiungono i materiali perduti come i componenti della lampada che sarebbe stata rinvenuta fulminata dal corto circuito, il video dell'intervista ad Alessandra Faconti al giornalista Cavallaro, lo scontrino emesso dalla Macelleria di Francesco Virga in località Cocci nei pressi dei luoghi in cui fu trovata una Fiat Uno nella cava Rocca di Giglio. Ed infine ci sono quelli che i giudici chiamano i punti oscuri: dal mancato approfondimento per verificare l'attendibilità della versione fornita da tre operai piastrellisti che si presentarono dai carabinieri per segnalare che erano loro gli autori di un “pic-nic” all'interno della cava, alle indagini non approfondite sul rinvenimento di un fucile semiautomatico il 6 ottobre 1988. C'è il verbale di sopralluogo sulla scena del crimine redatto il 10 novembre e non, come prassi, nell'immediatezza delle indagini dove si parla, tra l'altro dell'esplosione del fucile usato dal killer. Vi è poi nel fascicolo la presenza di una foto dove si fa passare un frammento del fanalino della Duna (fanalino distrutto di cui non si parla nel verbale di sopralluogo né tanto meno nella legenda allegata alla planimetria) per un frammento di copricanna. “Sarebbe poi da approfondire – ha aggiunto Giacalone – il significato di quell'appunto di Rostagno in cui è barrato il nome di Totò Minore, per lungo tempo ritenuto capomafia della Provincia di Trapani. Tutti lo cercavano. Nel 1992 abbiamo appreso che Minore era stato ucciso nel novembre 1982 a casa di Riina. Possibile che Rostagno avesse scoperto questo e lo volesse dire in diretta televisiva? Sarebbe stata una notizia sconvolgente per Cosa nostra che avrebbe riscritto, forse, pagine di storia”.
La parola alla politica
Con la straordinaria lettura scenica dell'attrice Tiziana Ciotta, liberamente tratta dall'ultimo libro di Benedetta Tobagi “Una stella incoronata di buio - Storia di una strage impunita”, si è definito chiaramente il concetto di “depistaggio”
L’attrice ha domandato al pubblico se fosse a conoscenza del paradosso che la parola “depistaggio” in lingua inglese non esista. “Lo sapevate che se un giornalista o uno storico inglese devono descrivere un depistaggio, usano la parola italiana?”, ha chiosato amaramente. Di seguito è intervenuta la senatrice Rosaria Capacchione, nonché giornalista sotto scorta, che, dopo aver ricordato le forti congiunzioni che ci sono state nella storia tra Cosa nostra e la Camorra (dai Bardellino ai Nuvoletta, tutti affiliati alla mafia siciliana), ha spiegato il perché ancora oggi non si è arrivati alla configurazione del reato di depistaggio. “E' il prossimo punto che sarà discusso in Commissione giustizia – ha detto – Era stato così stabilito prima delle commemorazioni della strage di Bologna. Il testo approvato dalla Camera prefigura il reato come un reato proprio commesso da chiunque abbia a che fare con l'indagine, ma poi, la scrittura di un testo di legge ci porta a dover ragionare sulla corretta applicazione della legge. C'è chi lo prevede come un reato comune che poi possa avere delle aggravanti, ad esempio per i pubblici ufficiali che lo commettono. Dopo una lunga discussione alla Camera di fatto ci è stato chiesto di intervenire ulteriormente. Lo faremo non appena sarà terminata la discussione sulle Unioni civili dove sono stati presentati una lunga serie di emendamenti in particolare da Giovanardi. Questo per dire che non deve passare l'idea che non ci sia la volontà di intervenire in materia ma semplicemente c'è una discussione tecnica da dover fare ragionando anche sul fatto che non si deve correre il rischio di creare qualcosa che poi porti all'impunità senza creare confusione tra chi non agisce per negligenza, chi per incapacità professionale e chi per atto voluto, ovvero il depistaggio”. Parlando della morte di Rostagno la Capacchione, che ha suggerito di portare la sentenza nelle scuole come è stato fatto a Napoli per la sentenza Spartacus, ha aggiunto: “Mi sono fatta l'idea che il giornalista possa aver dato fastidio per due fatti. Uno è quel nome cancellato che probabilmente avrebbe cambiato il corso di tante indagini. Poi il suo tono ironico ed irridente del mafioso. La mafia non tollera di essere ridicolizzato agli occhi del mondo. L'ho visto anche sulla mia pelle. I camorristi non hanno mai accettato il fatto che io non usassi i loro soprannomi, quelli per cui si vantavano all'interno dei vari clan. Non l'ho mai fatto a meno che non fosse necessario per distinguere i casi di omonimia. All'epoca della morte di Rostagno io avevo già vissuto la scomparsa del collega Siani. Sentivo le voci, le storie che giravano sul suo conto ma non mi avevano mai convinto. Credo che dopo tanti anni potremmo dire di essere in una vera democrazia solo quando un rappresentante delle nostre istituzioni chiederà pubblicamente scusa agli italiani per tutte le verità nascoste, per le cose scoperte con ritardo, per le cose non dette. Quella sì sarà una giornata da ricordare”.
La speranza nel nome di Rostagno
Dopo gli interventi di alcuni parlamentari presenti è stata la volta dell’ingegnere ambientale Gisella Mammo Zagarella, responsabile tecnico per la “Calcestruzzi Ericina Libera Società Cooperativa Trapani”. La referente del presidio Libera a Trapani “Ciaccio Montalto” ha letto una lettera di Carla Rostagno rivolta al sindaco di Valderice. “Non è possibile sapere quanto tempo ci è dato di vivere – ha scritto Carla Rostagno citando suo fratello Mauro –, su questo non possiamo intervenire, ma su una cosa si, ed è la qualità della vita che scegliamo di vivere”. Dal canto suo il coordinatore provinciale di Libera a Trapani, Salvatore Inguì ha ribadito il concetto esposto dall’ex capo della Mobile di Trapani, Beppe Linares nel video di apertura. “Mauro Rostagno era un valoroso per quei tempi – ha ricordato Inguì –, ma io credo che sarebbe valoroso anche per questi tempi, anzi, forse all’epoca era valoroso perché probabilmente era una voce fuori dal coro, una voce isolata. Oggi sarebbe ancora più valoroso perché adesso c’è un gran vociare, ma è come se tutto questo parlare non avesse come obiettivo la volontà della ‘costruzione’, ma della distruzione, come se voler parlare fosse solo rivolto a nuocere quello che altri fanno”. “Io dico che oggi questa città, questa provincia, questa terra – ha proseguito – se ha una possibilità e una speranza questa può risiedere soltanto nella possibilità di un dialogo costruttivo. Il che non vuol dire assenza della critica, del dibattito o del confronto, ma capire dal quale parte stiamo e chi sono i nostri nemici. In questa terra si corre il rischio di spararsi l’uno su l’altro attraverso il modo più terribile: l’infamia, il ‘non detto’, così da minare la credibilità di tante persone che in questo momento stanno lavorando”. “Spesso sento dire che ‘l’antimafia è alla sbarra’ – ha concluso Inguì –, si fa riferimento a Helg, o alla Saguto. Per ogni Helg che è stato denunciato o arrestato, ci sono mille e mille cittadini onesti che stanno lavorando. Dire che ‘l’antimafia alla sbarra’ è il modo per far tornare indietro la speranza della gente, soprattutto dei ragazzi e noi abbiamo una grossa responsabilità nel mantenere viva la speranza anche nel nome di Mauro Rostagno”.
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