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antiochia-roberto-divisadi Angelo Urgo* - 6 agosto 2015
Trent’anni fa un giornale titolava in rosso a caratteri cubitali: “Otto killer massacrano due bravi poliziotti”. Era la notizia della uccisione di Antonino (Ninni) Cassarà e Roberto Antiochia. Poi si disse che i killer erano nove, poi addirittura diciotto, tra quelli che sparavano e quelli che stavano di copertura per essere sicuri che l’agguato riuscisse.
Ninni era il vice capo della Squadra mobile di Palermo. In quegli anni era uno dei pochissimi uomini temuti seriamente dai mafiosi, che di fronte a lui si vedevano costretti a scappare, a qualsiasi ora del giorno o della notte, per non essere arrestati.
Ninni non era solo in questo difficile e pericoloso mestiere. Il commissario Beppe Montana aveva da poco creato in seno alla Quinta sezione investigativa antimafia una Squadra Catturandi. Per un lavoro così serviva infatti una squadra speciale composta selezionando con cura i singoli membri.
Roberto era uno degli incaricati di svolgere questo compito difficile. Era arrivato a Palermo nel giugno 1983, poco prima dell’assassinio del giudice Rocco Chinnici. Aveva la forza della gioventù, il sorriso aperto, la battuta pronta e una voglia di vivere straordinaria. Ma anche un grandissimo senso del dovere.
Ninni, Beppe, Roberto non erano soltanto poliziotti, erano uomini che hanno amato, sognato, sofferto, creduto nei valori di un Paese migliore.

Roberto e gli altri giovani della Catturandi erano uniti come fratelli. Tra un’indagine e un pedinamento mangiavano insieme una pizza o un panino, si facevano scherzi. Non avevano orari fissi, perché se arrivava una soffiata sulla presenza di un latitante in un posto bisognava fiondarcisi immediatamente. Era lo spirito e il metodo della Catturandi.
I mezzi a disposizione erano drammaticamente scarsi, ma si cercavano tutti i rimedi possibili, ci si adattava. Si andava in giro sulla Vespa di Cassarà, si facevano inseguimenti su alfette moribonde e riconoscibilissime o con le proprie auto private, si pagavano gli informatori di tasca propria, ci si divideva un solo binocolo, si cercava con ogni mezzo di avere un computer.
Sotto la guida di Cassarà e Montana era iniziato un nuovo corso della Squadra mobile per quanto attiene alle indagini su Cosa Nostra: quegli uomini erano consapevoli di avere a che fare con una mafia la cui pesante mano poggiava non solo sulla Sicilia, ma sulla nazione intera ed era da tempo ben radicata in alcune realtà d’oltre oceano, in particolare negli Stati Uniti d’America. A confermarlo era stata l’operazione“Pizza Connection”, realizzata dal pool antimafia di Palermo in collaborazione con l’FBI, che aveva portato all’arresto di decine di mafiosi tra l’Italia e gli Stati Uniti. Montana e Cassarà avevano preso parte attiva alle indagini.
Erano i tempi in cui i Corleonesi di Totò Riina cercavano di impadronirsi delle leve di comando di Cosa Nostra. Il triennio 1981-1983 vide il susseguirsi di omicidi interni a Cosa Nostra e miranti alla riorganizzazione dei vertici (la cosiddetta seconda guerra di mafia, che costò due migliaia di morti, in parte spariti per lupara bianca). La magistratura, nel contempo, lavorava in stretta sinergia con le forze dell’ordine ed era in grado di fare chiarezza su questioni che solo qualche anno prima apparivano misteriose. La svolta più significativa avvenne nel 1984, quando Tommaso Buscetta decise di collaborare con Giovanni Falcone. Vennero così poste le basi per il Maxiprocesso che sarebbe iniziato nel febbraio 1986.
Era fondamentale avere uomini fidati, che avessero talento nelle investigazioni e coraggio e si ispirassero ai valori della giustizia e della verità. Roberto Antiochia era uno di questi.
Roberto, prima ancora di essere un buon poliziotto, era un buon amico. Era in ferie quando seppe dai giornali che era stato ucciso Beppe Montana e si precipitò a Palermo.
Era stato proprio Montana a volere Roberto nella Catturandi. Avevano lavorato un anno e mezzo insieme, fino alla fine del 1984, quando Roberto era stato trasferito a Roma.
Il fatto che fossero pochi gli uomini determinati a dare la caccia ai mafiosi li rendeva prede fin troppo facili e riconoscibili ai mirini dei killer.
Dopo la morte di Montana e le accuse rivolte ingiustamente dall’opinione pubblica al Vicequestore per l’uccisione dell’indagato Marino in Questura, attorno a Ninni Cassarà c’era solo erba secca in attesa del fuoco. Roberto lo sapeva bene. Non ebbe dubbi. L’attaccamento alla Squadra mobile e l’amicizia per Ninni Cassarà lo spinsero a prolungare la sua permanenza a Palermo, anche per aiutare le indagini sull’uccisione di Beppe.“Resto qui”, disse per telefono alla mamma e ai fratelli. E tutti a dirgli che non doveva, che era una pazzia, un suicidio.
Ma la determinazione di Roberto era incrollabile: “Resto con Ninni”.
Che Roberto fosse un ragazzo devoto al proprio lavoro e agli affetti, lo sapevano tutti. Lo sapeva la sua fidanzata Cristina, che fin dai tempi del liceo si era innamorata di quel ragazzo alto alto e secco secco; e lo sapeva mamma Saveria, che di lì a poco avrebbe messo da parte i pennelli d’artista e cominciato a girare l’Italia invocando a gran voce Giustizia e Verità.
Quella di Roberto non fu una scelta eroica né può giustificarsi con l’avventata inesperienza di un giovane uomo. Roberto aveva dimostrato senso del dovere e grande impegno sin dai tempi dell’addestramento. Quel 6 agosto di trent’anni fa, Roberto non stava proteggendo solo un suo superiore, il vice questore Cassarà, ma il suo amico Ninni. Aveva detto “Darei la vita per salvare Ninni “ e l’ha fatto.
Quel 6 agosto, quando il suo amico decise di fare un salto a casa dalla moglie e dai figli, Roberto volle accompagnarlo a tutti i costi, sebbene Ninni non volesse. I killer se ne stavano accucciati sotto le finestre del palazzo di fronte alla casa del vice questore, in via Croce Rossa, pronti a fare fuoco.
Ninni aveva 38 anni, Roberto solo 23.
La motivazione della medaglia al valor civile data a Roberto recita: «Agente della Polizia di Stato, in servizio a Roma, mentre era in ferie, spontaneamente partecipava in Palermo alle delicate e difficili indagini sull'omicidio di un funzionario di polizia, con il quale aveva in passato collaborato, consapevole del pericolo cui si esponeva nella lotta contro la feroce organizzazione mafiosa. Nel corso di un servizio di scorta, rimaneva vittima di proditorio agguato ad opera di spietati assassini. Esempio di attaccamento al dovere spinto all'estremo sacrificio della vita.»
Ovviamente una medaglia al valor civile non può esprimere tutta la personalità di un servitore dello Stato, e men che meno il sorriso e la voglia di vivere di un giovane uomo che amava lo sport e proprio non sapeva stare fermo; che adorava fare scherzi agli amici,che aveva fame di vita, che diceva alla fidanzata Cristina che non doveva avere paura perché le pallottole per i rosci (lui era rosso di capelli) non li avevano ancora inventati.
È invece la memoria che diventa impegno, quella che sua madre Saveria ha saputo diffondere per tutta la vita dopo il 6 agosto 1985 come testimone di legalità, prima col Circolo Società Civile e poi con Libera, riuscendo a donare un valore inestimabile alle azioni e al sacrificio di suo figlio e dei suoi amici poliziotti, Beppe e Ninni, ma anche Natale Mondo.

* Associazione Saveria Antiochia Osservatorio antimafia, Milano

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