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alfano-beppe-web4di Aaron Pettinari - 16 maggio 2015
"So chi è il mandante e so chi è l'esecutore dell'uccisione del giornalista Beppe Alfano (in foto). Non posso dire di più perché ci sono indagini in corso". Il particolare è emerso durante il controesame del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico al processo trattativa Stato-mafia. Rispondendo ad una domanda dell’avvocato Francesco Romito, legale dell’imputato Giuseppe De Donno, il pentito ha anche aggiunto che “non sono stati i servizi segreti”. Per l’omicidio sono stati condannati in via definitiva Giuseppe Gullotti come mandante e Antonino Merlino come esecutore materiale dell’agguato compiuto l’8 gennaio 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto. I racconti del pentito sono confluiti nel fascicolo “Alfano ter” aperto dalla Procura di Messina. Si cerca anche di far luce sulla storia della mancata cattura del boss catanese Nitto Santapaola, che avrebbe trascorso l'ultima fase della sua latitanza proprio a Barcellona. Di questo particolare Beppe Alfano era a conoscenza tanto che un filone d'inchiesta riporta proprio alla latitanza di Santapaola l'ordine della mafia di eliminare il giornalista.

Sonia Alfano, figlia del giornalista, è sempre stata convinta che il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali la presenza di Santapaola a Barcellona.
C’è poi anche il caso della Colt 22, la pistola che passa di mano in mano tra varie persone, senza mai essere sottoposta a perizia balistica, ma che potrebbe essere quella che ha sparato al giornalista Beppe Alfano. Tracce di ciò sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, difensore di parte civile della famiglia Alfano, in un verbale del 28 gennaio 1993. Venti giorni dopo  l’uccisione del cronista de ”la Sicilia”, il pm Olindo Canali si accorge che l’imprenditore Mario Imbesi possiede una Calibro 22, e se la fa consegnare, senza sequestrarla formalmente. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente. Emerge, poi, la figura di Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti. Della sua indagine si occupano i magistrati Vito Di Giorgio e Angelo Cavallo, gli stessi che stanno indagando sul fascicolo denominato “Alfano ter”. Repici scopre ancora che c’è un’altra Colt 22 nelle disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Insieme a Mariani, viene arrestato anche Cattafi, accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano. L’avvocato Repici continua ad insistere sulla centralità della pista della Colt 22, ed ha richiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista.
Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La partecipazione di quest’ultimo ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Secondo Repici questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi. Delle riunioni vi è anche traccia nell’agenda del generale Mario Mori dove il 27 febbraio 1993 è registrato il nome storpiato “Canari” proprio accanto a quello di Di Maggio. Il 5 aprile, poi, la voce di Nitto Santapaola viene intercettata in una pescheria di Terme Vigliatore ed il giorno dopo Terme VIgliatore diventa teatro di un inseguimento con protagonisti i militari del Ros guidati da Sergio De Caprio, alias Ultimo. Questi avevano scambiato Fortunato Imbesi, figlio dell’imprenditore proprietario della colt 22, per il boss allora latitante Pietro Aglieri. In quell’incredibile caccia all’uomo, ricostruita nel dettaglio al processo contro Mori ed il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano nel 1995, Ultimo arrivò pure a sparare al giovane Imbesi. Se siano solo coincidenze o meno ora lavora la Procura di Messina nella speranza che si arrivi definitivamente a una definitiva verità.

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