di Lorenzo Baldo - 12 novembre 2014
Pesantissime le motivazioni della sentenza della Quinta sezione del Tribunale che ha condannato l’ex deputato regionale: politico di riferimento dell’Acquasanta, una sorta di testa di legno di un esponente del clan Galatolo. “Un prestanome ‘forte’, qualificato, ‘molto rispettato’ e affidabile nel consesso mafioso, facoltoso e assolutamente insospettabile”. “Il paradigma ideale di insospettabile prestanome funzionale agli interessi della consorteria mafiosa”. Un politico dalla “poliedricità criminale” del tutto “fuori dal comune e particolarmente allarmante”, un soggetto che, a fronte dei molteplici incarichi istituzionali rivestiti negli anni “ha manifestato abituale e generale inclinazione a delinquere e il più completo disinteresse verso il rispetto della legalità e della res publica”, “nel più assoluto spregio degli obblighi di legalità, onestà, efficienza che presidiano l’uso dei beni pubblici”. La sintesi del rapporto (più vivo che mai) tra mafia e politica
Si sono conosciuti negli anni ’80 all’Arenella e non si sono più lasciati: Angelo Galatolo (classe 1960), rampollo della storica famiglia mafiosa della borgata marinara e Franco Mineo, rampante delfino di Gianfranco Miccichè, poi diventato deputato regionale di Grande Sud, sono inseparabili da vent’anni. La storia di un sodalizio politico mafioso cresciuto in una delle borgate è tracciato nelle 325 pagine della sentenza che ha condannato l’ex parlamentare regionale a otto anni e due mesi per peculato e per intestazione fittizia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra.
Citando Mineo il Presidente della Corte, Pietro Falcone (giudici a latere Fabrizio Anfuso e Gabriella Natale) evidenzia “il suo radicamento nel territorio dell’Acquasanta, la risalenza nel tempo dei suoi rapporti fiduciari e di frequentazione con Angelo Galatolo e altri esponenti ai vertici della ‘nomenklatura’ mafiosa”. I giudici hanno dichiarate prescritte le accuse di malversazione per Settimo Trapani e per lo stesso Mineo, condannando a cinque anni per intestazione fittizia aggravata Angelo Galatolo (e assolvendolo contestualmente dall’accusa di associazione mafiosa).
“La sua sperimentata affidabilità nel contesto mafioso dell’Acquasanta-Arenella – scrive il Collegio riferendosi a Mineo –, la sua notorietà di uomo politico, la sua agiatezza economica, rappresentava, per certi versi, il paradigma ideale di insospettabile prestanome funzionale agli interessi della consorteria mafiosa”. Probabilmente, basterebbero queste poche parole per cancellare dalla scena pubblica chiunque, al di là del “garantismo” avvinghiato unicamente alle sentenze di Cassazione. La questione, oltre a essere collegata a reati penali, è indubbiamente “morale”. Quella stessa “morale” trascurata da troppi politici nei loro contatti con esponenti mafiosi. Per quanto riguarda Mineo, basta rileggere gli avvenimenti.
Da una perquisizione del 2010 nello studio dei commercialisti Franzone era scaturita l’indagine che ha portato a questa condanna. In quella occasione gli investigatori della Dia avevano recuperato un appunto, una sorta di promemoria, relativo a un passaggio di proprietà di alcuni immobili. Vicino al nominativo dell’acquirente si leggeva: “Compra Angelo G.”. I pubblici ministeri Dario Scaletta e Pierangelo Padova, tramite le visure catastali, avevano scoperto che i locali erano in realtà di proprietà dell’ex deputato di Grande Sud.
Secondo l’accusa, quindi, Mineo avrebbe comprato due immobili per conto di Galatolo di cui sarebbe stato un prestanome e a cui sarebbero confluiti i soldi degli affitti. I pm avevano ugualmente contestato a Mineo anche un’ulteriore fattispecie di intestazione fittizia. Secondo i magistrati, lo stesso Mineo sarebbe stato, sulla carta, il proprietario di alcuni immobili, in realtà riconducibili a Galatolo, e avrebbe anche riscosso gli affitti da questa proprietà per poi versarli al Galatolo.
“Attraverso la periodica riscossione degli affitti da parte del Mineo – scrivono i giudici – e la loro successiva attribuzione pro-quota al Galatolo, la cosca mafiosa dell’Acquasanta è riuscita a remunerare per molti anni – sino al sequestro degli immobili (ottobre 2010) – le ingenti somme di denaro riciclate attraverso l’operazione di acquisizione degli immobili. Ben si comprende, allora, l’importanza strategica che la condotta del Mineo e del Galatolo assume nei processi di riciclaggio e reimpiego dei capitali provento del crimine organizzato, dacché – ‘schermando’ il bene e dissimulandone la reale proprietà e disponibilità – è funzionale alla realizzazione degli interessi economici del sodalizio e all’accrescimento della sua forza e capacità operativa”.
Di tutto ciò Franco Mineo “ne aveva piena conoscenza” in quanto “si era prestato consapevolmente e volontariamente a mettere a disposizione della ‘causa’ mafiosa la sua immagine di affermato, facoltoso e insospettabile imprenditore, concorrendo in tal modo ad agevolare gli interessi e le finalità programmatiche della cosca mafiosa dell’Acquasanta”.
Ma chi è Angelo Galatolo? Oltre a far “da ‘collettore’ dei proventi delle estorsioni” i giudici scrivono che questi “era dedito, insieme a suo padre, al riciclaggio ed al reimpiego degli ingenti capitali di derivazione illecita del sodalizio mafioso, che investiva in molteplici e remunerative operazioni, sia imprenditoriali che immobiliari, tramite un’articolata rete di insospettabili prestanomi i quali, sfruttando la forza di intimidazione mafiosa, avevano acquisito posizioni dominanti nel mercato ortofrutticolo, nei cantieri navali e nel settore della distribuzione all’ingrosso di sacchetti di plastica”.
Ma soprattutto, scrive ancora il Collegio, Angelo Galatolo è stato “cliente dell’agenzia assicurativa del Mineo ed abituale frequentatore del bar di famiglia di quest’ultimo”. Per i giudici quei rapporti sono “con ogni ragionevolezza, cementati anche dal fatto che il Mineo era – e verosimilmente è ancora – il politico di riferimento dell’Acquasanta che, oltre a costituire da sempre la sua roccaforte elettorale, è anche il territorio ove la cosca mafiosa dei Galatolo storicamente esercita in modo capillare e diffuso il suo potere intimidatorio”.
Mineo e Galatolo scrivono i giudici “erano diventati ‘soci’ di fatto ed occulti nell’affare, acquisendo pro-quota l’effettiva proprietà e disponibilità dei due beni. Tale societas, se in linea teorica può apparire singolare in relazione al tradizionale modus operandi dell’associazione mafiosa, nei fatti trova plausibile giustificazione nella particolare considerazione e nel notevole ‘rispetto’ che il Mineo godeva in tale consesso criminale sin dagli anni ‘80”.
Nel documento si legge che non è stato possibile svelare che tipo di “accordi sotterranei” siano intercorsi tra i due imputati, “né come e quando costoro abbiano regolato e conguagliato contabilmente i loro apporti finanziari”, visto che “nel confuso ginepraio di pagamenti attribuiti al Mineo, ancorché materialmente eseguiti da terzi e con modalità tutt’altro che trasparenti e lineari, non risulta ‘tracciabile’ la provenienza di buona parte dei capitali utilizzati nell’operazione”.
L’ex deputato regionale di Grande Sud viene quindi definito “un prestanome ‘forte’, qualificato, ‘molto rispettato’ ed affidabile nel consesso mafioso, facoltoso ed assolutamente insospettabile”. Decisamente la persona ideale per “precostituire una fictio di lecita derivazione del denaro impiegato nella compravendita, in modo da ‘immunizzare’ e mettere al riparo gli immobili dalle temute indagini di prevenzione patrimoniale”.
Nelle 325 pagine della motivazione, i magistrati riprendono diversi passaggi delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Tra questi l’ex reggente del mandamento di Partanna-Mondello, Francesco Onorato. “Sul conto del Mineo – si legge nel documento – l’Onorato formulava accuse di estrema gravità, descrivendolo come legato, sin dagli anni ‘80, da rapporti relazionali e di frequentazione non episodici con personaggi di primo piano della cosca mafiosa dell’Acquasanta-Arenella e dello stesso mandamento di Resuttana, tanto da essere ‘molto rispettato’ in tale consesso criminale, rispetto che gli derivava anche dell’ampia ‘disponibilità’ prestata negli anni ad assecondare e favorire tali personaggi”.
Onorato aveva raccontato agli inquirenti che lo stesso Mineo, oltre ad essere “molto intimo” con i Galatolo, lo era anche con il boss Gaetano Scotto, condannato nel 2002 all’ergastolo nel 2002 per la strage di via D’Amelio, già vice-capo della famiglia mafiosa dell’Arenella, nonchè fratello di Pietro Scotto, l’impiegato della ditta telefonica “Elte” condannato in I° grado nel “Borsellino I” (e poi assolto definitivamente) con l’accusa di aver messo sotto controllo il telefono della sorella del magistrato, Rita (dove in quel periodo abitava la madre di Borsellino), con l’obiettivo di conoscere il momento preciso in cui questi si sarebbe recato sul luogo dell’agguato.
Anche con Armando Bonanno, reggente del mandamento di Resuttana, i giudici ricordano che, tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi del 1990, l’ex deputato di Grande Sud “era ‘in ottimi rapporti”, a tal punto che “il collaborante rammentava che il Mineo e suo padre erano andati a trovarlo più volte nel rifugio dell’Arenella ove trascorreva la sua latitanza, portandogli ‘cannoli’ e ‘cassate’, mentre nell’estate del 1987 erano stati incaricati dallo stesso Onorato di consegnare a ‘Pino’ Galatolo del denaro ricevuto dal Bonanno”.
Nella sentenza viene evidenziata quella “disponibilità” offerta dallo stesso Mineo definito “un personaggio tanto benestante ed all’apparenza insospettabile e, quindi, teoricamente in grado di giustificare in chiave lecita, mercé la propria ricchezza personale e/o familiare, la provvista dei capitali impiegati nell’operazione immobiliare, rispondeva strategicamente ad un obiettivo fondamentale di ‘cosa nostra’, quello cioè di difendere dall’azione di contrasto dello Stato l’effettiva proprietà e disponibilità dei beni e, correlativamente, ottimizzare i risultati del suo scellerato disegno di layering e integration money (riciclaggio del denaro sporco, ndr)”.
“Dalle plurime e varie imputazioni di reato ascritte al Mineo – scrivono ancora i giudici – nonché dal complesso delle intercettazioni esaminate emerge, piuttosto, una ‘poliedricità’ criminale dell’imputato fuori dal comune e particolarmente allarmante, trattandosi di un soggetto che, a onta dei molteplici incarichi istituzionali rivestiti negli anni, ha manifestato abituale e generale inclinazione a delinquere ed il più completo disinteresse verso il rispetto della legalità e della res publica”.
Il Collegio scrive, tra l’altro, che per l’acquisto di carburante per uso privato l’imputato “ha fatto sistematicamente ricorso a pratiche elusive dell’imposizione fiscale”. Ma sono sempre le sue relazioni “quanto meno equivoche e compromettenti, intrattenute da moltissimo tempo con soggetti generalmente annoverati quali esponenti di rango dell’associazione mafiosa ‘cosa nostra’ e incolpati di gravissimi reati (quali la strage di via D’Amelio)” a essere costantemente poste sotto la lente d’ingrandimento.
Relazioni che l’imputato “non ha mai abiurato ma, al contrario, ha scientemente coltivato anche a fini elettorali”. I giudici ribadiscono ulteriormente “l’estrema gravità” dei fatti contestati “finalizzati ad avvantaggiare l’organizzazione mafiosa ‘cosa nostra’ e, in particolare, una delle sue più potenti e sanguinarie cosche” sottolineando il carattere “tendenzialmente permanente delle condotte di attribuzione fittizia, che abbracciano molti anni ed hanno consentito perciò all’associazione mafiosa di perpetuare nel tempo la remunerazione dei capitali investiti nell’operazione immobiliare”.
Nella sentenza vengono focalizzati quei “meccanismi dissimulatori, particolarmente subdoli e infidi, posti in essere per sottrarre gli immobili ai provvedimenti ablatori”. Ma è soprattutto quello “stabile e spregiudicato asservimento da parte del Mineo dei servizi e dei beni pubblici assegnatigli in virtù dell’incarico istituzionale ricoperto ad esigenze e finalità del tutto private” a essere condannato. Tra quelle finalità “private” rientrava l’abitudine di fare shopping nei centri commerciali, portare polizze assicurative da un posto all’altro, accompagnare propri familiari e collaboratori in giro per la città a sbrigare faccende personali, ecc. “nel più assoluto spregio degli obblighi di legalità, onestà, efficienza che presidiano l’uso dei beni pubblici”.
Tratto da: loraquotidiano.it