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caccia-bruno-magA trent'anni di distanza i familiari chiedono la riapertura delle indagini
di Miriam Cuccu - 6 ottobre 2014
Paola Caccia parla di "nuovi elementi importanti" che hanno spinto lei e i fratelli Cristina e Guido, difesi dall'avvocato Fabio Repici, a chiedere alla Procura di Milano la riapertura delle indagini sull'omicidio di Bruno Caccia (in foto), magistrato torinese ucciso da 17 colpi di pistola il 26 giugno 1983. Per questo, aggiunge, è importante "riesaminare le carte" per cercare la verità sulla verità del padre, anche se "molti ci dicono che sono troppi trent'anni, che probabilmente non arriveremo a niente".
Eppure sulla vicenda del procuratore Caccia sono molti gli elementi che ancora oggi non tornano. Come il ritrovamento nell'abitazione milanese del magistrato, anni dopo, di un volantino falso che attribuiva l'omicidio di Caccia alle Brigate rosse. Giustificato come un omicidio di matrice 'ndranghetista - per il quale è stato condannato il boss calabrese Domenico Belfiore - in realtà le cause dell'assassinio del magistrato sarebbero da ricollegare alle indagini che Caccia stava seguendo sul Casinò di Saint Vincent, sul riciclaggio di denaro sporco proveniente dai sequestri di persona. E alla figura di Rosario Pio Cattafi - in qualità di mandante, su cui si erano inizialmente concentrate le indagini - boss catanese strettamente legato al clan dei Santapaola e oggi al carcere duro, considerato importante anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti. 

Le indagini erano seguite, nello stesso periodo, dal pretore Giovanni Selis di Aosta, che pochi mesi prima dell'assassinio di Caccia scamperà ad un attentato dinamitardo. Proprio lui, davanti ai magistrati milanesi, indicherà le indagini comuni come una probabile pista dell'omicidio del procuratore, a seguito di un colloquio riservato avuto con il pm Maddalena, incaricato dallo stesso Caccia di indagare sulla questione dei casinò nelle mani della mafia. Le indagini di Selis furono poi archiviate e il pretore, definito da Repici un "testimone mancato sull'omicidio Caccia", morirà suicida pochi anni dopo.
Nel 1985, due anni dopo l'omicidio Caccia, è Luigi Incarbone a confermare la responsabilità di Cattafi davanti ai magistrati di Torino, spiegando di essere stato "detenuto con Franco Chamonal (del Casinò di Saint Vincent) che ancora oggi mi fa arrivare 500mila lire." "Mi disse che Caccia è morto per il fatto del Casinò… che il mandate era un palermitano importante che aveva conosciuto e che aveva deciso l'omicidio...", aveva aggiunto. Secondo Repici "il palermitano importante" sarebbe proprio Rosario Cattafi.
"La magistratura dovrebbe mostrare per prima, oggi, una pulsione a colmare quel debito di verità e giustizia che sul sangue di Bruno Caccia si è creato" sostiene Repici. Oltre alla figura di Cattafi, in qualità di mandante, emerge quella di Demetrio 'Luciano' Latella, considerato nel nuovo atto d'accusa "mafioso indicato da numerosi collaboratori di giustizia come trait d'union fra i clan siciliani e calabresi di Milano e quelli di Torino". Pluriergastolano già indicato come probabile esecutore materiale dell'uccisione di Caccia, Latella è in semilibertà dal 2006 "pur non avendo mai collaborato con la giustizia" si legge nella denuncia. Il processo Caccia, spiega ancora Repici, "ha patito l'operato in particolar modo di un magistrato: Francesco Di Maggio" titolare delle indagini che "omise di mettere nel registro degli indagati uno considerato killer, e l'altro mandante" e che è accertato abbia "ufficiali connessioni con i servizi segreti". Grazie, però, conclude Repici, a "elementi di prova ripescati in fondo agli archivi dei palazzi", in alcuni casi provenienti da fascicoli che sarebbero dovuti essere distrutti, la verità sull'omicidio Caccia potrebbe essere finalmente ripristinata.

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