da libera informazione.org - 1° settembre 2014
Ci sono voluti 20 anni per arrivare a una riapertura delle indagini per l’omicidio di Mauro Rostagno, ucciso il 26 settembre del 1988 in contrada Lenzi a Valderice (Trapani). E 26 anni per la sentenza di condanna dei boss. Una delle tante vergogne del nostro paese. Ma paradossalmente non è stato un male. Perché nella fase finale del processo, dinanzi alla Corte di Assise di Trapani, presidente giudice Angelo Pellino, a latere giudice Samuele Corso, con loro sei giudici popolari, si è arrivati ottenendo un dato in più: non solo si è trovata, dalle perizie balistiche, la conferma della “firma” della mafia su bossoli e cartucce, quelli sapientemente preparati dal killer Vito Mazzara (che qualcuno ha anche definito “ex killer” come se il carcere cancellasse ogni storia) ma si è anche trovata un’altra “firma”, di Mazzara sui resti di legno di un fucile, un copricanna, rinvenuti sulla scena del delitto. Non solo: la perizia del dna, ultimo atto condotto dalla Corte di Assise, ha anche trovato un’altra traccia genetica che appartiene a un parente di Vito Mazzara.
E nel processo il pentito Francesco Milazzo, ancora prima di questa perizia, aveva detto che solitamente chi accompagnava Mazzara nelle sue scorribande criminali era lo zio, Mario Mazzara. Ci si può consolare al pensiero che se il processo si fosse svolto anni fa, come era giusto che fosse, forse non si sarebbe giunti ai risultati di oggi. O forse si sarebbe potuto raggiungere la prova della colpevolezza della mafia e dei suoi esponenti più importanti, a cominciare da don Ciccio Messina Denaro, che ha evitato il processo perché nel frattempo deceduto, il quale passeggiando tra gli alberi di agrumi di un suo possedimento diede l’ordine di uccidere “chiddu ca varva e vistutu di bianco” che per i suoi interventi in tv, a Rtc, televisione privata del trapanese, parlando di mafia e mafiosi era diventato una “camurria”. Parola usata dal padrino belicino.
“Mauro Rostagno reagì sorridendo”. Un processo e una storia, quella di Mauro Rostagno, che sapientemente è stata raccontata da Adriano Sofri, nel libro edito da Sellerio, “Reagì Mauro Rostagno Sorridendo” e la cui presentazione nazionale si è tenuta a Valderice, per iniziativa dell’amministrazione comunale, del sindaco, Mino Spezia e del circolo 2 Giugno di Articolo 2, lo scorso 29 agosto. Scelta non casuale quella di Valderice: “Qui – ha detto il giornalista Rino Giacalone, portavoce di Articolo 21 – hanno governato i mafiosi condannati, Virga e Mazzara, qui Vito Mazzara per anni ha potuto circolare tra un delitto e l’altro, qui, dall’alto della collina di Ragosia ci guarda, sorridendo, come dice Sofri, Mauro Rostagno la cui tomba è nel cimitero del paese valdericino”. Figura poliedrica, ma non ambigua come in molti hanno cercato di dipingerla quella di Mauro Rostagno fu davvero uomo dalle tante esistenze, tutte caratterizzate dallo stesso comune denominatore: la sacralità della vita e il sogno di vivere per una società migliore. “Noi non vogliamo trovare un posto in questa società ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto” scriveva Rostagno. “E’ stato un uomo dalle molte vite vissute – ha ricordato Sofri parlando dell’amico Mauro – e delle molte altre che avrebbe potuto avere”. Il libro “Reagì Mauro Rostagno sorridendo” si apre con una immagine suggestiva: il fantasma di Rostagno che, privato di verità e giustizia, è rimasto a Trapani, intrappolato fra le vie che dal mercato del pesce portano al lungo mare, sino alle viuzze del centro storico. Qui, scrive Sofri, continuava a vagare sino ai giorni del processo, della sentenza. Il processo, faticoso e lungo, ha cancellato le idiozie di certuni investigatori che hanno sostenuto in Corte di Assise che la morte di Mauro era dovuta ora ad amori, gelosie e corna, sperperi di denaro, droga ed altro. Il processo ha restituito onore agli investigatori di ieri e di oggi, come Rino Germanà, ex capo della Mobile di Trapani, o ancora il suo successore, Giuseppe Linares, che hanno saputo leggere in quel delitto la “firma” della mafia. Virga e Mazzara non sono due mafiosi qualunque: il primo addirittura riceveva ordini che gli sarebbero giunti da Marcello Dell’Utri, l’altro solitamente commetteva omicidi con il boss Matteo Messina Denaro, l’odierno super latitante di Cosa nostra siciliana. Il primo impartì l’ordine di morte contro Rostagno obbedendo a don Ciccio Messina Denaro e per anni è stato un impunito, il secondo girava sempre con la “scupetta” (pistola, ndr) pronto ad utilizzarla, “tanto se mi fermano – diceva – posso dire che vado ad allenarmi al tiro al piattello” lui che vestiva la casacca azzurra della nazionale di tiro al piattello. E invece si allenava a sparare alle persone, come accadde il 23 dicembre del 1995 nella frazione di Palma quando uccise l’agente di polizia penitenziaria Giuseppe Montalto, lasciando indenni la moglie e la figlia di questi che sedevano accanto. Anche il 26 settembre del 1988 Mauro Rostagno non era solo sull’auto che guidava e al cui posto di guida venne inchiodato dai colpi esplosi contro, con lui c’era Monica Serra rimasta pulita, nemmeno sfiorata da un proiettile. Vito Mazzara è custode di tanti segreti e di lui i suoi degni compari sono stati ascoltati a dire che “è un pezzo da 90, uno che se si pente è cuoi per tutti”.
Mauro Rostagno e l’impegno contro mafia e mafiosi. Il 1988 è l’anno della trasformazione della mafia che diventa impresa nella provincia di Trapani. Rostagno dagli schermi di una tv locale indicava le precise responsabilità di Cosa nostra nel traffico e nella raffinazione della droga e faceva capire di aver intuito quella “trasformazione” che si stava verificando dentro Cosa nostra. “Spesso durante il processo – ha detto Sofri – si è sentito dire, come a volere allontanare Cosa nostra dal processo, che ad uccidere Rostagno non era stata solo la mafia, la mafia e non solo la mafia la frase usata, a me pare che la mafia già da sola è tante cose”. Mauro Rostagno ammazzato perché faceva il giornalista-giornalista. Parlava con la gente, discuteva con loro dei guai di ogni giorno e traeva spunti per i suoi pungenti servizi televisivi. Il degrado di una città era colpa di congreghe e farri, di politica, mafia e massoneria deviata che decidevano insieme il bello e cattivo tempo. I suoi editoriali oggi mantengono attualità, perché la mafia si è solo trasformata, è vero “non ha vinto” ma non è sconfitta: ieri speculava sul degrado, oggi ha messo le mani sulla bellezza del territorio, risanando a Trapani con le sue imprese il centro storico, costruendo infrastrutture, occupandosi di commercio e turismo. Non spara più la mafia di oggi – mentre a Rostagno toccava ogni giorno contava i morti ammazzati della Sicilia e diceva, ben intuendo le alleanze criminali che si stavano creando, che sarebbe giunto anche il momento in cui Trapani avrebbe scalato quella classifica di morte, cosa che avvenne, contando anche lui tra le vittime – ma è pronta a sparare, preferisce intimidire e soprattutto sa chi votare quando è ora.
Le indagini e il processo. Il processo per il delitto mafioso di Mauro Rostagno ha evidenziato che in nome della normalità verbali sono finiti sepolti, carabinieri indicati come punta di diamante in realtà non valevano nulla (o peggio), amici di Rostagno hanno nicchiato dinanzi alle domande o in ritardo si sono ricordati di fatti importanti già la sera del 26 settembre 1988, i servizi segreti hanno negato ogni loro presenza a Trapani mentre investigatori rimasti inascoltati per anni hanno raccontato che gli aerei, che secondo i servizi segreti venivano usati per portare “materiale di cancelleria” in Somalia, erano utilizzati per sbarcare e imbarcare droga o armi, fin dentro la base militare dell’Aeronautica a Birgi. “Il processo – ha ancora detto Sofri presentando il libro a Valderice – è stata una occasione per misurare la dimensione umana dei protagonisti, è stato nel complesso un grande episodio di storia civile”. La Corte di Assise è riuscita a far pulizia attorno alla morte di Mauro Rostagno e ha dimostrato che se si vuole davvero cercare la verità sulla storia della città di Trapani, si può fare. Trapani è stata, e forse lo è ancora, crocevia di tante cose: mafia, massoneria, servizi segreti…qui è possibile scoprire vicende che fanno parte “delle trattive” tra istituzioni e poteri occulti. Solo grazie a queste trattive la mafia è diventata un’altra cosa: nel 1988 era un mondo a parte, oggi è dentro la società, e magari recita anche la parte dell’antimafia. Mauro Rostagno faceva il giornalista in una città che continua a convivere con la mafia: “Oggi – ha sottolineato il cronista Rino Giacalone – la cultura mafiosa resiste e tenta di rimanere imperante. In tanti usano un modo di parlare che vuol essere un sottile far intendere. Anche tra i giornalisti. Tra gli editoriali di Rostagno finiti dentro al processo ce n’è uno emblematico”. Ecco il testo: “Qualche mio caro amico mi ha consigliato di abbassare i toni perché questo lavoro rischia di fare male alla Sicilia e alla comunità, io continuo a pensare e a dire che la migliore pubblicità che si può fare alla Sicilia è quella di affermare che la mafia va abbattuta». “E oggi non è diverso – ha aggiunto Giacalone – I sindaci se la prendono se si parla di mafia in relazione alle loro città, ci sono sindaci che dicono che di mafia a scuola non bisogna parlarne o affermano che Matteo Messina Denaro non è il primo dei problemi mentre magistrati e investigatori sequestrano e confiscano i beni appartenuti ad imprenditori che facevano parte della corte del latitante. Oggi ai giornalisti arrivano messaggi analoghi a quelli che riceveva Rostagno, chi resiste va incontro alle querele temerarie…le intimidazioni vengono condotte in nome della legge”. “La mafia non ha vinto, anzi, ha cominciato di più a perdere con le condanne inflitte dalla Corte di Assise di Trapani per l’omicidio di Mauro Rostagno perché quello non si è svelato essere come si voleva “un delitto tra amici” ma non possiamo ancora dire e scrivere che la società civile stia prevalendo del tutto – ha sottolineato ancora Rino Giacalone – la rottamazione non è per tutti e di tutti e la società civile non avrà vinto fino a quando saremo costretti a parlare e dirci impegnati nell’antimafia questo significherà che c’è una mafia da contrastare, allora serve responsabilità maggiore responsabilità come ci ha sollecitato don Luigi Ciotti”. “La mafia – ha concluso Adriano Sofri – è una delle cose più stupide oltre che malvagie e infami, una delle cose più stupide e brutte che può capitare agli uomini, mafiosi compresi”.
La recensione del libro sul quotidiano”La Repubblica” - di Enrico Deaglio
Tratto da: liberainformazione.org