di Rossella Guadagnini - 16 maggio 2014
E’ una verità ribadita due volte quella di Nicola Mancino, ex ministro dell’Interno, attualmente imputato a Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Ieri Mancino è arrivato -a sorpresa- nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, che negli Anni Ottanta ha ospitato il primo maxi-processo alla mafia. Non era più intervenuto dopo che, la prima volta, in apertura del dibattimento nel 2012, presentandosi con l’auto di scorta aveva suscitato la protesta del Movimento delle Agende Rosse di Salvatore Borsellino e un’interrogazione parlamentare dell’eurodeputata Sonia Alfano.
Dopo l’ascolto durato tre ore delle sette chiamate intercettate dalla Procura palermitana, tra la fine del 2011 e la primavera del 2012, intercorse fra lui e Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, Mancino rende dichiarazioni spontanee, leggendo il suo papiello (non papello, attenzione!) di 10 pagine, presumibilmente nel comprensibile intento di attenuare, in qualche modo, il senso di quelle registrazioni, che in aula sarebbe stato forse anche più sgradevole in sua assenza.
Parla con voce rotta dall’emozione l’ex ministro accusato di falsa testimonianza, e si capisce. Respinge tutte le accuse a suo carico e, rivolgendosi alla Corte d’Assise, afferma: “Signor Presidente, quello che conta non è una verità costruita, ma una verità vera, affinché la storia possa dire che non c’è mai stato da parte del ministro dell’Interno alcun cedimento, né per la trattativa, nè per il 41 bis”. Una verità sottolineata, dunque, propro come se lo stesso imputato non fosse ben sicuro neppure lui e sentisse la necessità di ripeterlo a sé e agli altri, come un mantra, in quella sede ufficiale. Una “verità vera” che si rivolge direttamente alla storia.
Ma quale storia? Non quella della trattativa, dove sembra che tutti sappiano tutto, ma che nessuno dica niente. Come in un dramma di Pirandello, in cui molti -come lui ad esempio l’ex comandante del Ros, il generale Mario Mori- rivendicano il ruolo di servitori dello Stato, ma poi si rivelano servitori a “mezzo servizio”. Ossia hanno servito, il che è ovvio, tuttavia spesso non ricordano come e quando. Il che rende la loro fedeltà alle istituzioni quantomeno intermittente e perciò non del tutto affidabile. Almeno dal punto di vista della verità, quella oggettiva.
“Ho sempre servito lo Stato con lealta’, amore e disinteresse, ma contro di me si è innescata una campagna denigratoria, nonostante io abbia sempre combattuto la mafia con grande determinazione. Io non ho mai chiesto di intervenire sull’inchiesta”, ha sostenuto l’imputato eccellente. E quasi quasi ci convincerebbe se non fosse per un’altra considerazione che arriva in estremo: la verità, anche quella di cui parla Mancino, non era, non è una? Forse, però, con lo Stato-mafia e con la Mafia-Stato le verità diventano inesorabilmente due. Verità vere per giunta. E non presunte, come costoro dicono che sia per la trattativa.
Tratto da: blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it
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