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dali-antonio-big0di Rino Giacalone - 1° ottobre 2013
Anni di indagini, procedimenti archiviati, riaperti e ricondotti sulla soglia dell’archiviazione. Improvvise svolte nelle inchieste, un processo lungo due anni e infine la sentenza. Il senatore Antonio D’Alì (foto), politico e banchiere trapanese, ex sottosegretario all’Interno, a Palazzo Madama dal 1994, sin dalla prima ora berlusconiano di ferro, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa ha ottenuto un pronunciamento per così dire salomonico cioè “saggio ed equilibrato”. Ma potrebbe dirsi con un noto proverbi,o una sentenza che dà “un colpo al cerchio e un colpo alla botte”, non tanto come scelta opportunistica quanto come scelta che non ha voluto scontentare nessuna delle parti, pm e difese. Il pronunciamento del gup Gianni Francolini pesa e pesa tantissimo  al di là della sua conclusione. Intanto è la sentenza scritta da un giovane giudice che è cresciuto a Trapani e oggi si trova a ricoprire, dopo una breve parentesi trapanese, importanti incarichi giudiziari nel Tribunale del capoluogo dell’isola siciliana. Vogliamo pensare che abbia deciso sulla base delle carte processuali. Non potrebbe essere altrimenti. E sarà indubbiamente così!

Ma certamente il giudice Francolini ha processato un personaggio politico che per la comune cittadinanza non poteva non conoscere quantomeno di “fama”. Non sapremo mai che idea ha il giudice Francolini della “fama” politica e sociale del senatore D’Alì. Quando depositerà le motivazioni della sentenza sapremo l’unica cosa che è possibile sapere, solo quella di natura giudiziaria: ossia le considerazioni del giudice, codice alla mano, rispetto alle contestazioni mosse dalla Dda di Palermo al senatore D’Alì. Cioè perché ha applicato la “prescrizione” sino ai fatti di reato contestati fino al gennaio 1994, prescrizione che non è assoluzione ma come è facile reperire nei testi giuridici significa “Estinzione di un diritto, di un reato o di una pena per trascorsi limiti temporali”. Cioè il reato c’è ma non è più punibile perché risalente a molto tempo prima rispetto al processo”.

E perché ha pronunciato l’assoluzione che secondo le nuove norme viene sempre pronunciata con la formula del “fatto che non sussiste” ma il 530 secondo comma, citato dal giudice al momento della lettura del dispositivo,  così’ recita: “Il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”. Con le motivazioni dovrà dire se la prova mancava o era insufficiente o contraddittoria. Quello che è difficile capire in questo momento è perché in alcuni commenti, anche dello stesso imputato (affidati ad una memoria scritta consegnata al giudice prima che si ritirasse in camera di consiglio), si fa una differenza tra l’operato del gup, che prescrive e assolve, e quello di altri magistrati, i pm, che hanno chiesto la condanna. In una battuta il gup per ciò che ha deciso non è “comunista” i pm, che hanno chiesto la condanna, solo per questa ragione invece lo sono. Oggi se non conosciamo le motivazioni della sentenza perché non ancora depositate, lo saranno entro i prossimi 90 giorni, conosciamo gli elementi dell’accusa mentre stentiamo a conoscere quelli della difesa che ha preferito una azione di contrasto alle tesi dei pm quasi leggera, sostenendo in generale l’inesistenza degli elementi di prova, dei riscontri, e in ultimo addirittura ha valutato come inconsistente il verbale di accusa arrivato dalla testimonianza di un sacerdote, Ninni Treppiedi, che per anni è stato grande amico e buon frequentatore del senatore D’Alì. La Procura ha fatto un elenco di nomi di soggetti pericolosi, mafiosi, imprenditori, ha indicato una serie di circostanze, appalti, raccolta di voti, che ad avviso dei magistrati erano la prova, sostanzialmente bocciata dal giudice, non c’è dubbio, dei rapporti con Cosa nostra. Se è impossibile credere che la sentenza del giudice Francolini scaturisce da salomoniche decisioni, allo stesso modo non si può sostenere che le accuse della Procura scaturiscano da “contrapposizioni politiche” tra magistrati e imputato come lo stesso senatore sostiene. Ognuno ha fatto la sua parte. I pm hanno indagato, un giudice ha deciso. Il punto oggi in attesa di leggere la sentenza qual è? I fatti indicati dai pm nessuno può dire che non facciano parte della storia di Trapani degli ultimi 30 anni. Sono circostanze che una sentenza penale non può cancellare e rimuovere dal contesto sociale e politico. E oggi ai tanti critici, anche dell’ultima ora (anche in questo caso c’è sempre qualcuno che è abile a salire sul carro del “vincitore”) viene da evidenziare una famosa frase del celebrato e mai bene ricordato procuratore Paolo Borsellino. Era il 26 gennaio 1989, Borsellino parlava agli studenti di Bassano del Grappa, lì apposta invitato dal prof. Enzo Guidotto. Disse Borsellino: “L’equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice che quel politico era vicino al mafioso, però la magistratura non l’ha condannato quindi quel politico è un uomo onesto. E no, questo discorso non va. La magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, però siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri poteri dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi, che non costituivano reato, ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati dati perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza”. Matteo Messina Denaro non è un “mascalzone” come in una occasione, intervistato, Tonino D’Alì ebbe a dire, ma un mafioso, assassino e stragista. Questo per dire che il ridimensionamento di una figura criminale come quella di Matteo Messina Denaro, al di là di ogni altra cosa, il fatto che fosse suo campiere, che i due erano in affari quantomeno per la vedita di un terreno, la storia dei 300 milioni di vecchie lire restituite, non funziona e merita contestazione politica e sociale. Così come resta tanto da dire, sempre parlando da un punto di vista politico e sociale, dei rapporti che nel tempo il senatore D’Alì ha avuto con una serie di imprenditori, relazioni anche veloci e superficiali in qualche caso, volendo dar fede alle sue parole, da Birrittella a Michele Mazzara, da Vincenzo Virga a Francesco Pace passando per Tommaso Coppola, da Carmelo Patti a Francesco Morici, soggetti che sarebbero stati o sono stati con tanto di sentenze definitive (Birrittella, Mazzara, Virga, Pace) a “portata di mano” di Messina Denaro,  le cui evoluzioni giudiziarie sono state diverse: Birrittella, è l’unico che ha deciso di collaborare con la giustizia quando in carcere seppe che i mafiosi liberi volevano inguaiare i suoi figli, gli altri hanno preferito il silenzio, anzi Virga e Pace misero pure i loro figli, con ruoli diversi, più sanguigni i Virga, Francesco e Pietro, a disposizione dell’organizzazione. Tommaso Coppola agiva in nome della mafia e della politica e dal carcere gli mandava messaggi, non si sa se ricevuti dal senatore ma questo Coppola faceva, Michele Mazzara, favoreggiatore della latitanza del boss, spendeva il nome del politico e sapeva benissimo come funzionava la sua segreteria, Carmelo Patti e Francesco Morici sono i capitoli più recenti aperti dalla Dda di Palermo, soggetti a procedimento per la confisca dei beni, Patti è l’imprenditore che poteva bussare grazie a precisi appoggi politici alla porta della grande finanza ed entrare nei grandi giri economici, Morici è invece l’imprenditore “acchiappa” grandi appalti a Trapani e anche lui spendeva bene il nome del senatore. Ora: o D’Alì è stato un uomo sfortunato a incontrare questi imprenditori sulla sua strada, o è stato uno che ha impiantato una strategia politica e sociale mettendo in conto di potere avere questo genere di contatti pronto a tagliare ogni legame al momento giusto. Viene da pensare alla seconda ipotesi. E quindi anche in questo caso un giudizio politico e sociale non può non esserci.

Tutto questo fino all’incontro con padre Ninni Treppiedi. Un sacerdote che non veniva ieri tacciato da D’Alì e dal suo entourage, delle cose immonde oggi a questi attribuite. Anzi. A Trapani erano notorie le capacità di influenza del sacerdote sul senatore D’Alì, difficile credere che queste voci a lui non siano mai giunte. Oggi questi sono comportamenti indicati dal politico come spregiudicati, perché così non venivano definiti quando Treppiedi sedeva alla tavola di casa D’Alì? “Io sono una persona perbene” ha detto il senatore D’Alì dopo la sentenza…ha ragione sentenza alla mano. Una persona perbene che però non può negare di avere avuto “frequentazioni” pericolose e inopportune per un uomo delle istituzioni. Per questo il “caso D’Alì” resta aperto. A parte le decisioni che la Procura prenderà tra 90 giorni a motivazioni acquisite, a proposito dell’eventuale appello, c’è tutto aperto il confronto sociale e politico. Anzi ci sarebbe perché non se ne coglie alcun segno nemmeno dalla parte degli avversari tranne voci isolate. Stante quanto si legge in queste ore il senatore D’Alì non sembra intenzionato a fare alcun mea culpa, dalla sua parte ha un “coro” trapanese tutto a suo favore, e invece oggi, come dice Massimo Candela di Sel (unico dall’opposizione a commentare la sentenza) ci sono tante cose da discutere e dibattere: “Ci sono entusiasmi fuori luogo di una politica ambigua sul tema della lotta a Cosa Nostra, la sentenza di assoluzione e prescrizione in primo grado nel processo per concorso esterno in associazione mafiosa a carico del sen d’Alì, non riscrive la storia politica e amministrativa degli ultimi venti anni di questo territorio. Una storia che ha visto e vede tutt ora la politica che conta, i poteri economici e Cosa Nostra spartirsi le risorse del territorio in un patto scellerato. Quel patto che ha consentito di sprecare l’occasione della sistemazione del porto di Trapani per dotare la città di una infrastruttura utile al territorio. Invece, nulla di tutto questo, quella politica si è assunta la responsabilità di affossare anche quella speranza ed adoperarsi per rimuovere funzionari e prefetti leali nei confronti dello Stato. La sentenza che rispettiamo, come nostro consueto costume, fa emergere un dato allarmante ma consolidato. La Politica per buona parte è incapace di avere un profilo autonomo sulla analisi dei poteri e sulla lotta agli stessi, aspettando invece di esultare o disperarsi solo in occasione di sentenze di condanna o assoluzione”. Non c’è solo il caso D’Alì. In generale e non solo a Trapani c’è aperto il caso di una certa politica che è soggiogata a rapporti precisi che vanno recisi e che esistono anche quando c’è una sentenza che dice altro.

Tratto da: liberainformazione.org

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