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dalla-chiesa-carlo-albertodi Antonio Cambria - 4 settembre 2012
“L’omicidio Dalla Chiesa può certamente essere identificato come uno spartiacque, un punto di svolta della storia della mafia e dell’antimafia ma, vorrei dire, dell’intera storia del nostro Paese”. Con questa riflessione, il Procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, ha introdotto, ieri sera a Palermo, la presentazione del libro di Luciano Mirone “A Palermo per morire”, che ripercorre gli ultimi giorni vissuti da Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo, raccontando il contesto storico e politico in cui maturò il suo eccidio, provando a fare luce su uno dei più importanti “buchi neri” della storia repubblicana.

“Si trattò di un punto di svolta per la mafia” - spiega Ingroia- “ l’apice della strategia dei delitti politico-mafiosi, in quanto venne colpita una alta carica dello Stato. Ma, parallelamente, anche per l’antimafia, perché da quel momento inizierà una presa di consapevolezza della sfida ed una reazione legislativa finalmente all’altezza, stante la successiva ed immediata approvazione della L. 646 del 1982, c.d. Rognoni-La Torre, che introdusse i primi veri strumenti normativi contro la mafia. Su un piano politico e sociale, invece, segnò un momento di forte riscatto da parte della comunità palermitana che diede origine alla celeberrima Primavera, che ebbe una notevole incidenza sulla realtà gettando i semi della nascita del Pool Antimafia e del successivo Maxiprocesso”.
In effetti, da quel momento in poi sia la mafia che l’antimafia non sarebbero più state le stesse rispetto al passato. La società civile iniziò, finalmente, a comprendere la reale portata del fenomeno criminale, facendo sentire per la prima volta la propria voce e rifiutando un sistema di illegalità e di violenza che aveva determinato solo squallore e morte sulle strade di Palermo. Venne, così, avviato un processo di identificazione morale ed etica verso quei valorosi uomini delle istituzioni che combattevano con tutte le loro energie e con intransigenza il fenomeno criminale nel suo complesso, baluardi di una giustizia e di una legalità troppo spesso violentata impunemente. Uomini come Carlo Alberto Dalla Chiesa.
“L’assassinio del Generale Dalla Chiesa – prosegue Ingroia – possiede tutte le componenti della tradizione dei delitti politico – mafioso, in quanto colpisce proprio un uomo con alto senso istituzionale, animato da una visione dello Stato all’epoca ancora connotata dalla c.d. ingenuità istituzionale. Cioè l’idea, comune a pochi e valorosi uomini delle istituzioni del tempo, che lo Stato possedesse un volto intransigente nel contrasto ai poteri criminali ma che, tuttavia, era tradita dalla prevalente politica statale della tregua e della convivenza pacifica con la mafia, di cui la nota Trattativa costituisce solo l’ultima esemplificazione”.
Una storia che, dunque, pare essere connotata dai medesimi ed inquietanti elementi identificativi, comuni a troppi delitti eccellenti, le cui vittime sono sempre quegli uomini delle istituzioni che giammai si sarebbero piegati ad una scellerata convivenza con Cosa Nostra, chiamati a combattere una guerra da soli e disarmati, sovraesposti ed abbandonati da uno Stato da loro rappresentato proprio in questa guerra.
“Una storia che si ripete – sottolinea l’autore Luciano Mirone a proposito di Dalla Chiesa – uomini dello Stato mandati allo sbaraglio e, di conseguenza, uccisi. Uomini che, oltretutto, non sono solo simboli della lotta alla mafia ma, aggiungerei, della lotta per la democrazia nel nostro Paese, così come lo è oggi il dott. Ingroia”.
“Non so se si tratta solo di convivenza con lo Stato da parte di Cosa Nostra. Io parlerei, invece, di una perfetta organicità tra questi due poteri. Vi è, infatti, una perfetta saldatura con le istituzioni, quasi funzionale alla vita dello Stato, così come testimonia la storia del nostro Paese dal fascismo ai nostri giorni. Una funzione del tutto inedita nel mondo, riscontrata da numerosi episodi caratterizzati da un unico filo conduttore, a cominciare da Portella della Ginestra”, spiega lo storico Casarrubea, che ripercorre la genesi e il consolidamento di un rapporto fortissimo, organico per l’appunto, tra mafia e Stato, fino ad arrivare proprio al delitto Dalla Chiesa, che conduce invece ad una rottura degli equilibri, a suo dire, esistenti anche alla luce del mutato quadro geopolitico del tempo.
“Un particolare davvero inquietante – aggiunge il prof. Casarrubea – è che nella vicenda Dalla Chiesa si verificano i medesimi buchi neri che, quasi patologicamente, caratterizzano tutti i delitti politico-mafiosi. Mi riferisco alla sparizione del contenuto della cassaforte del Prefetto, così come accadrà con il computer di Falcone o con l’agenda rossa di Paolo Borsellino, per non parlare della documentazione circa la sorte del bandito Giuliano, contenuta in un cassaforte, di cui inutilmente parlò Gaspare Pisciotta. Tutte testimonianze, forse, di quella comunione tra componente mafiosa, pezzi dello Stato e servizi deviati che costituisce la Santa Alleanza di cui per primo parlò lo stesso Pisciotta al processo di Viterbo. Ecco perché ricordare compiutamente Dalla Chiesa vuol dire, oggi, obbligo morale di riflettere sui tanti dettagli inquietanti della storia del nostro Paese e provare a darsi risposte convincenti”.
Considerazioni condivise da Riccardo Orioles, giornalista noto per avere fondato, insieme a Pippo Fava, nel 1982 il mensile "I siciliani”, con il quale ha, nel corso degli anni, tenacemente denunciato le attività illecite di Cosa Nostra in Sicilia, specie a Catania. In particolare, l’inchiesta svolta dal mensile sui Cavalieri, definiti “dell’Apocalisse” da Fava, fu particolarmente apprezzata dall’allora Prefetto Dalla Chiesa, tanto da farne riferimento nell’ultima sua intervista al giornalista Giorgio Bocca, allorchè affermò che la Mafia oramai partiva da Catania per andare alla conquista degli appalti pubblici a Palermo.
“Ma da allora molte cose sono cambiate”, spiega Orioles. “Vi sono tanti elementi per affermare che il cambiamento è davvero in atto e occorre essere ottimisti. Certo, il cammino per una Sicilia finalmente libera dal compromesso non si è concluso e dobbiamo andare avanti, ma con fiducia”.
Un ottimismo che, per Antonio Ingroia, richiede sforzi ulteriori da parte di tanti protagonisti del nostro Paese che, fino ad oggi, sono stati pressoché inermi ovvero drammaticamente attivi per ostacolare questo processo di rinnovamento culturale e giudiziario. Riferendosi ai numerosi passi avanti compiuti negli ultimi anni circa le indagini sulla stagione stragista, Ingroia avverte però che “completate le indagini sulla trattativa, non credo la magistratura da sola potrà andare molto oltre. Certamente si è raggiunta una maggiore consapevolezza del fenomeno mafioso da parte della nostra società, specie i più giovani. Ma non basta. Occorre, infatti, l’intervento di altri protagonisti della storia e un ruolo fondamentale può giocarlo proprio questa parte più sensibile della nostra società, incoraggiando le istituzioni che contano, perché si accerti finalmente la verità. Altrimenti, la sola magistratura, pur sostenuta dalla società civile, avrà più difficoltà ad accendere l’interruttore della luce nella stanza buia della verità. Appare necessario fare un passo in avanti, con un rinnovamento a tutti i livelli, superando le mezze verità come per l’omicidio Dalla Chiesa, ovvero continueremo ad impegnarci sapendo che quella luce resterà fioca. Ma, soprattutto, senza quella verità la nostra rimarrà una democrazia incompiuta ed imperfetta”.
Un rinnovamento che, necessariamente, parte dai giovani e dalla edificazione di una nuova classe dirigente che, nelle parole del Procuratore aggiunto di Palermo, deve assumere lo spirito intransigente di Dalla Chiesa, respingendo quella pacifica convivenza con i poteri criminali, quei patti scellerati. Non è più rinviabile, osserva Ingroia, “una rivoluzione etica e politico-culturale. Dobbiamo dare una spallata a quella classe dirigente contigua o il futuro sarà uguale al passato. In passato ci sono state Primavere incompiute, cui non è seguita l’estate del raccolto. Vi è adesso una nuova Primavera di speranza, cui si augura possano essere garantiti i frutti, attraverso l’impegno di tutti, sul solco dell’intransigenza di Dalla Chiesa che si oppone alla contiguità”.
A distanza di 30 anni, dunque, le difficoltà incontrate da Dalla Chiesa in Sicilia appaiono drammaticamente attuali, per via di un intreccio perverso di poteri da egli pubblicamente denunciato. “Un uomo che non faceva sconti a nessuno”, sottolinea il Sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, ricordando l’incontro tra il Generale e Giulio Andreotti di poco precedente il suo arrivo a Palermo. “Proprio la corrente politica andreottiana fu da Dalla Chiesa segnalata come la più inquinata in Sicilia, molto legata a Cosa Nostra e ai suoi sporchi affari”.
“Ma quest’anno nelle commemorazioni dei valorosi uomini delle istituzioni caduti per mano mafiosa, ho riscontrato un forte desiderio di non fare ricordo bensì memoria: cioè fare in modo che le esperienze vissute possano essere utili oggi e domani. In questa direzione, occorrerebbe interrogarsi su quali siano oggi le famiglie politiche inquinate, come al tempo era quella andreottiana in Sicilia. Magari non vengono dal sangue delle stragi, ma vivono nella palude del compromesso. E, se vogliamo fare memoria, dobbiamo rispondere a questo quesito. Altrimenti ci fermeremo al mero ricordo di un uomo coraggioso e valoroso. Sì, è vero che combattere la mafia della palude è più difficile, perché essa non conosce confini ed abbraccia l’intera penisola. Pensiamo all’importanza assunta dall’accaparramento delle risorse economiche, che vive del germe della corruzione, in cui poco importa se l’attore protagonista è un mafioso o un uomo per bene. La cultura dell’appartenenza ha trasformato, ormai, la mafia in una cultura nazionale cui, per sconfiggerla, dobbiamo opporre un rinnovamento morale ed etico, che appare ancora distante”, conclude Orlando.
Già, perché la reazione sociale “ha costantemente coinciso con momenti di forti emozioni collettive”, conclude Ingroia, “da cui sono sorti solo movimenti di breve respiro, incapaci di condizionare realmente la politica antimafia. Perché non dobbiamo mai dimenticare che tanti uomini dello Stato, come Dalla Chiesa, sono caduti non solo a causa della prepotente potenza criminale, bensì perché le istituzioni conviventi non li hanno mai voluti proteggere adeguatamente”.

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