Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

scopelliti-antonio-web0Il giudice era il pm del maxiprocesso in Cassazione
di Lorenzo Frigerio - 9 agosto 2012
Estate, tempo di vacanze per gli italiani. Estate, tempo di regolamento di conti per i killer della mafia. Infatti è la storia a ricordarci che luglio e agosto sono storicamente i due mesi in cui sono caduti più servitori dello Stato e più innocenti per mano della violenza mafiosa. Mandanti ed esecutori contano sull’insofferenza per le vicende di cronaca e sulla calura oppressiva: un morto ammazzato in Sicilia o in Calabria sotto i colpi di lupara e kalashnikov si dimenticano prima, se di mezzo ci sono le partenze intelligenti per i mari e i monti o qualche evento sportivo di dimensione internazionale. 

Lo stesso copione andò in scena ventuno anni fa, il 9 agosto del 1991, quando venne ritrovata la vettura del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Antonino Scopelliti. Ai primi soccorritori sembrava quasi di trovarsi di fronte ad un malore del conducente o ad un incidente stradale, con la macchina che venne rinvenuta posizionata innaturalmente su un terrapieno ai lati della provinciale che collega Campo Calabro a Villa San Giovanni, in terra di Calabria. Solo poco dopo ci si accorse della verità: il magistrato era stato fatto oggetto di un agguato vero e proprio mentre faceva rientro a casa, dopo alcune ore di libertà trascorse al mare. I killer, probabilmente in due a bordo di una motocicletta, lo attesero al varco in prossimità del paese per eseguire la sentenza di morte.

Due colpi di fucile alla testa furono il sigillo alla vita terrena di un giudice che aveva dimostrato di non essere pronto a fare sconti a nessuno. La sua intransigenza Scopelliti l’aveva dimostrata non a parole ma con i fatti, durante tutta la sua carriera di pubblico ministero, da Roma a Milano per poi tornare ancora a Roma, dove prima di arrivare in Cassazione, fu anche procuratore generale presso la Corte D’Appello. Una intransigenza che avevano fatto di lui un rappresentante autorevole della pubblica accusa in processi di terrorismo e mafia: da Piazza Fontana al caso Moro, passando anche per la strage al rapido 904, il giudice calabrese si era più volte imbattuto in vicende dove i profili di contiguità tra Stato e organizzazioni criminali di stampo mafioso affioravano creando non pochi imbarazzi alla fragile democrazia del nostro Paese.

In Cassazione aveva avuto modo di scontrarsi con il rigido formalismo propugnato dalla prima sezione penale, in particolare del presidente Corrado Carnevale, avversario ostico di altri colleghi quali Falcone e Borsellino. E proprio sulla scorta del lavoro di questi due colleghi palermitani, che Carnevale soprannominava sprezzantemente “i dioscuri”, Scopelliti si stava preparando a sostenere in Cassazione le ragioni dell’accusa, nell’ambito del maxiprocesso. La fama di intransigente Scopelliti se l’era guadagnata sul campo e quindi anche le minacce e le profferte degli emissari di Cosa Nostra, perché ammorbidisse toni e richieste caddero nel vuoto. Alcuni collaboratori di giustizia, come Marino Pulito della Sacra Corona Unita e Giacomo Lauro e Filippo Barreca della ‘ndrangheta parlarono di un avvicinamento esplicito, con tanto di offerta economica – quattro o cinque miliardi di vecchie lire – respinta sdegnosamente al mittente. 

Ecco allora scattare l’ultima soluzione, quella estrema: l’agguato omicida volto a tappare per sempre la bocca a chi avrebbe potuto sostenere la legittimità della ricostruzione fatta dal pool antimafia di Palermo. Cosa Nostra avrebbe visto in questa eliminazione la possibilità di un accordo con la ‘ndrangheta calabrese, al quale l’eliminazione del giudice sarebbe stata appaltata, visto che si trattava di un omicidio da portare a compimento in terra di Calabria. I clan calabresi in tutto ciò avrebbero guadagnato l’intermediazione autorevole dei boss siciliani per comporre la guerra in atto nel reggino fin dal 1985, a seguito dell’uccisione del capo dei capi Paolo Di Stefano . 

I due processi che si sono svolti a Reggio negli anni tra il 1996 e il 1998 e che hanno visto alla sbarra Riina, Provenzano e boss siciliani e calabresi sono purtroppo finiti nel nulla, a distanza di pochi anni, dopo i vari passaggi nei diversi gradi previsti dall’ordinamento.  Un delitto incredibilmente rimasto impunito per oltre vent’anni e per il quale, forse, soltanto oggi si riapre un possibile spiraglio. Qualche settimana fa, infatti, nel corso del processo Meta, il pm della DDA di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo ha chiesto al collaboratore Giuseppe Fiume, secondo il quale a commissionare l’omicidio Scopelliti sarebbero stati due esponenti della mala reggina, di non fare i nomi in aula, perché in corso accertamenti sul tenore delle dichiarazioni rese da Fiume allo stesso Lombardo e a Pignatone, all’epoca procuratore a Reggio e oggi a Roma. 

Forse dopo tanti anni, anche per l’omicidio Scopelliti, sarà possibile accendere la luce nella stanza della verità, una luce rimasta spenta troppo a lungo.    

Link utili:

Il programma delle manifestazioni in ricordo di Antonino Scopelliti

Fondazione Antonino Scopelliti

Tratto da: liberainformazione.org

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos