di Rino Giacalone - 20 giugno 2012
Due testi, due collaboratori di giustizia citati dalla difesa dell’imputato Vito Mazzara davanti ai giudici della Corte di Assise che sta processando presunto mandante e presunto assassino di Mauro Rostagno. Si tratta degli ex uomini d’onore Antonio Patti, di Marsala, e Giuseppe Marchese, palermitano.
La difesa di Mazzara li ha citati “a colpo sicuro”: nei verbali della istruttoria sono tra quei collaboratori di giustizia che alla domanda se sapevano qualcosa del delitto di Mauro Rostagno hanno risposto “picche”, cioè di non sapere nulla. In un processo dove c’è chi forse pensa che la mafia non dovrebbe essere imputata ma semmai parte civile, per l’attribuzione che a Cosa nostra si è fatta di questo delitto, le due testimonianze sulla carta dovevano probabilmente servire a delineare lo scenario di non colpevole per Cosa nostra e per i suoi due imputati, Virga e Mazzara, conclamati mafiosi. E invece? Non è andata proprio così.
Tutti e due, Patti e marchese, hanno confermato ciò che tanto tempo addietro avevano detto a verbale, e cioè di non sapere nulla del delitto di Mauro Rostagno. Ma in particolare Antonio Patti pur non dicendo nulla sul delitto ha bene descritto gli scenari di Cosa nostra quando c’è da commettere un delitto eccellente, ha parlato delle abitudini di Vito Mazzara, ha ribadito il ruolo di capo mandamento di Vincenzo Virga. Vito Mazzara ha ascoltato senza battere ciglio dalla cella dell’aula: completo in blu, tipici pantaloni e camicia estiva, sono lontani i tempi in cui smagrito si presentava al cospetto dei giudici, condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’agente penitenziario Giuseppe Montalto i primi anni in cella non debbono essere stati una passeggiata per lui, poi con l’andare del tempo le tensioni si sono allentate; tensioni che erano conosciute anche fuori dal carcere, i boss parlando di lui erano sempre preoccupati che quello che viveva in carcere poteva portarlo a pentirsi, “lui è un pezzo di storia”, questa la “certificazione” su chi è Vito Mazzara tratta dalla “viva voce” dei suoi complici, in alcune delle intercettazioni relative a indagini antimafia condotte in provincia di Trapani. Tanto importante Vito Mazzara che pensavano anche a come poterlo farlo evadere dal carcere. Vincenzo Virga segue il processo in video conferenza invece, detenuto nel carcere di Parma, ieri con una sgargiante camicia ben stirata, colore lilla, attraverso il video lo si è potuto ben vedere, era seduto al fianco di uno dei suoi due difensori, Vezzadini, l’altro, Giuseppe Ingrassia è presente invece a Trapani, nell’aula della Corte di Assise. Virga e Mazzara tutti e due molto attenti hanno seguito l’udienza. Antonio Patti ha raccontato la sua storia di mafioso e poi di collaboratore di giustizia. Oggi è libero, vive in località protetta, reo confesso di delitti, ha scontato ogni pena. Ha spiegato perché del delitto Rostagno può non sapere nulla sebbene lui stesso ha detto di essere stato uno di quelli sempre tenuto in grande considerazione dai vertici di Cosa nostra. “I delitti eccellenti li decideva la “provincia”, della provincia facevano parte “Ciccio Messina Denaro, Vincenzo Virga, Mariano Agate…non è che per ogni decisione si sapeva qualcosa….ma si capiva quando succedeva qualcosa di eclatante che sapore aveva”. Come dire….io non so nulla del delitto di Mauro Rostagno ma nessuno ha chiesto in giro se c’entrava la mafia….”non ce ne era bisogno di chiedere”…dentro Cosa nostra altri pentiti hanno detto che la regola principale è quella di non fare tante domande. “Io che appartenevo a Cosa nostra – ha detto Patti durante la sua testimonianza - non dovevo sapere per forza quello che di discuteva e si decideva….si capiva”. Già si capiva…..nel caso per il delitto Rostagno chi doveva capire in tempo pare non capì, la mafia uccideva e chi indagava volgeva lo sguardo altrove…
Ma la testimonianza di Patti se nulla di specifico ha portato a proposito delle responsabilità dell’omicidio di Mauro Rostagno, ha introdotto circostanze lo stesso utili. Sul conto di Vincenzo Virga per esempio, “era lui dagli anni ’80 in poi il capo della mafia di Trapani”, e ad un tentativo di opposizione dell’avv. Vezzadini ad una domanda del pm Francesco Del Bene, Patti è intervenuto dicendo “…ma tanto Vincenzo Virga lo sa che lui era il capo mafia di Trapani”. E sulle abitudini di Vito Mazzara. Patti ha detto che con lui, con Matteo Messina Denaro, con Giovanni Leone, con un certo “Ciruzzu” ed un soggetto rimasto senza volto, un giovane di Partanna, partecipò ad un duplice delitto a Partanna (qulo di Giuseppe Sciacca e di Rosario Piazza ndr): “Eravamo tutti armati, per entrare in azione abbiamo atteso due giorni restando in una casa di Partanna, poi ci siamo mossi con un furgone Fiorino, guidava Ciruzzu e affianco a lui c’era Matteo Messina Denaro, io, Mazzara, Leone, eravamo dentro nella parte chiusa del furgone, al segnale sono scesi Mazzara e Leone, loro hanno sparato, io non mi sono mosso non ce ne è stato di bisogno, Vito Mazzara ha usato un suo fucile, lui aveva il porto d’armi, con questa scusa poteva camminare armato, era campione di tiro a volo, e l’ho visto sparare da vero professionista, ha colpito la sua vittima da meno di 15 metri, l’imprenditore era la vittima designata, poi Leone ha ucciso l’altra persona non c’entrava niente ma era lì”. “E’ una scena che ho ancora davanti ai miei occhi…è stata questione di minuti…anzi manco di minuti…attimi”. I tempi dei delitti di mafia, forse proprio come è successo per Mauro Rostagno. Patti ha spiegato le abitudini, che talvolta quando c’era da fare omicidi c’era chi metteva a disposizione le armi, ma Vito Mazzara camminava con un suo fucile: “Era un calibro 12, modificato, invece di sparare tre colpi, ne poteva sparare cinque”. Ha parlato senza tentennamenti, non ha suscitato dubbi, ha mantenuto fede al suo comportamento, a proposito del suo passato ha detto “…io sono appartenuto a Cosa nostra mafioso è una parola che non mi piace”, e relativamente alla collaborazione con la giustizia, “…io ho collaborato con tutto il cuore”. La difesa con le sue domande pensava di avere fatto centro quando ad un certo punto ricostruendo la tela degli incontri con Mariano Agate, Patti aveva detto che nemmeno parlando con il capo mafia di Mazara aveva saputo nulla sul delitto Rostagno, sebbene la ricostruzione fin qui emersa vuole che Rostagno con i suoi servizi giornalistici sul processo per il delitto del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, dove Agate era imputato, aveva creato tanto fastidio; e invece alle domande del pm del Bene il mistero è stato risolto, nel periodo del delitto Rostagno, in quel 1988, Antonio Patti era in carcere, già dal 1986, non poteva mai avere parlato, perciò, in quel periodo, con Mariano Agate che, si sa per certo, era molto risentito dei servizi in tv di Rostagno. Giuseppe Marchese anche lui sul delitto Rostagno non ha saputo dire nulla di specifico, sul comportamento di Mariano Agate, in generale, invece qualcosa ha detto, “lui era una sorta di pacificatore ma era anche l’ala armata di Cosa nostra, l’uomo di Totò Riina”. Con Mariano Agate, Gisueppe Marchese, fratello di Vincenzina, la moglie, morta suicida, di Leoluca Bagarella, è stato per un periodo in carcere, ma anche in questo caso confidenze pochissime, ”le cose più delicate le discutevano in pochi e non c’era possibilità di chiedere…nemmeno io che ero un uomo d’onore riservato per volere di Totò Riina”.