di Silvia Cordella - 25 aprile 2012
La Corte d'Appello del Tribunale di Palermo presieduta da Biagio Insacco ha rigettato la richiesta del pg Luigi Patronaggio di sentire il pentito Stefano Lo Verso nell’ambito dell’istruttoria dibattimentale del processo di secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa a carico dell’ex Governatore della Sicilia Salvatore Cuffaro.
Secondo il giudice le dichiarazioni del collaboratore che curò per un periodo la latitanza di Bernardo Provenzano non sarebbero rilevanti ai fini della decisione nei confronti dell’imputato che sta già scontando la pena a sette anni per favoreggiamento alla mafia, inflittagli a gennaio dello scorso anno dopo il pronunciamento definitivo della Cassazione. Il Presidente della Corte ha inoltre respinto il decreto con l'imputazione coatta dell'ex ministro delle Politiche agricole Saverio Romano, sotto processo per concorso esterno in associazione mafiosa e il dispositivo di condanna definitiva dell'ex assessore comunale di Palermo Domenico Miceli. Ammessa invece l'acquisizione della sentenza definitiva di condanna per Cuffaro. Nel presente procedimento l’ex Governatore siciliano era stato assolto in primo grado il 16 febbraio 2011 dal Gup di Palermo Vittorio Anania con la formula del “bis in idem” in quanto, per il giudice, l’imputato sarebbe stato già condannato per gli stessi fatti con la sentenza definitiva che ha poi portato al suo arresto. Una lettura non in linea con le richieste della Procura la quale, nel suo ricorso, ha parlato di “commenti impropri” da parte del giudice sulle conclusioni dell’altra Corte d’Appello di Palermo chiamata a pronunciarsi per i soli reati di rivelazione di notizie riservate e favoreggiamento, di cui era stato accusato. “Il Gup - scrivono i pm - ha ingiustificatamente concluso che: “Con la sentenza della Corte di Appello non si è affatto dato atto dell’esistenza di un patto politico – mafioso o di scambio elettorale nel quale il Cuffaro, in questa sorta di partita a scacchi giocata a distanza con il mafioso Guttadauro, ha assunto dei precisi impegni nell’interesse di Cosa Nostra o in favore di questo o di quell’altro associato mafioso per soddisfare degli interessi riferibili alla consorteria, né tantomeno, si è affermato che il predetto imputato si sia successivamente attivato per la realizzazione di quanto concordato in virtù di un simile progetto delittuoso’ ”. Affermazioni, per i sostituti Francesco Del Bene e Nino Di Matteo, “frutto di una valutazione atomizzata, incompleta e non corretta di un compendio probatorio che invece, proprio sul punto della candidatura del Miceli, ha indotto la Suprema Corte di Cassazione ad affermare, senza ombra di dubbio ed in esito a uno stringente argomentare frutto della corretta valutazione di tutti gli elementi di prova emersi in quel procedimento, la sussistenza e la concretezza di un vero e proprio ‘patto politico – mafioso’”. Per questo, alla luce di tutto ciò, la Procura aveva chiesto l’acquisizione della sentenza di condanna a carico del delfino politico di Cuffaro, Miceli appunto, che avrebbe permesso di ricostruire le tappe di quell’accordo avvenuto nel 2001 fra il Presidente della Regione e il cognato del superlatitante Matteo Messina Denaro, Giuseppe Guttadauro. Condotte che si riferiscono alla “messa a disposizione” del ruolo politico di Cuffaro in favore di Cosa Nostra, così come configurato dal concorso esterno, che riguarda anche la vicenda dell’ inserimento in lista di Giuseppe Acanto, il candidato che sarebbe stato suggerito dal capomafia di Villabate Nino Mandalà all’on. Saverio Romano per il tramite di Francesco Campanella. Un capitolo ripreso nei dettagli dal giudice Giuliano Castiglia autore della richiesta d’imputazione coatta a carico dell’ex politico Udc (che il giudice ha però ulteriormente rigettato), ‘colpevole’ a suo parere di aver preso parte al fianco di Cuffaro alla trattativa in favore di Guttadauro prima e Mandalà dopo. Insomma, per i pm l’inserimento a processo di questi documenti avrebbe creato il presupposto per guardare la posizione del politico nella sua completezza, “contestualizzando e valutando congiuntamente le singole vicende aventi come unico denominatore comune il ripetuto e variegato attivarsi in favore di esponenti mafiosi”: dalla richiesta di voti ad Angelo Siino fino ai presunti rapporti con Francesco Bonura, storico esponente della famiglia mafiosa dell’Uditore, alle “aspettative” di Nino Rotolo, passando per il processo “talpe” e per poi giungere alle dichiarazioni del pentito di Ficarazzi Stefano Lo Verso. Depositario quest’ultimo delle confidenze fattegli da diversi protagonisti mafiosi legati a questo processo, tra tutti Nicola Mandalà, capomafia di Villabate, che gli parlò degli stretti rapporti fra la sua famiglia e gli onorevoli Cuffaro e Romano, inoltre Michele Aiello il quale confessò che le rivelazioni oggetto delle fughe di notizie a suo favore da parte dell’ex Governatore nel 2003 erano finalizzate alla ricerca di Provenzano ed infine lo stesso capomafia il quale diceva di essere sicuro, in epoca successiva all’arresto dell’imprenditore di Bagheria, che Cuffaro avrebbe rispettato certi accordi. L’audizione di Lo Verso sarebbe stata dunque un appuntamento interessante, per capire ancora qualche punto controverso fra tanti rimasti attorno a una vicenda che ha visto trattare sul tavolo delle alleanze svariati esponenti delle istituzioni dei primi anni duemila con il mondo della criminalità organizzata. Chissà se il rigetto delle diverse richieste formulate dall’Accusa non sia già il preludio dell’esito del processo, il quale è stato rinviato al prossimo 28 maggio per la discussione del procuratore generale. Successivamente toccherà alla difesa. La sentenza dovrebbe essere emessa entro l'estate.