I segreti di mafia e di Trapani, Gladio e Massoneria.
di Rino Giacalone - 22 febbraio 2012
Estate del 1950, cortile De Maria in via Mannone a Castelvetrano. Nella città dei campieri mafiosi Messina Denaro si compie il primo dei delitti del dopoguerra frutto, oramai non ci sono più dubbi, delle commistioni tra Stato e mafia. Il bandito Giuliano viene trovato morto, volto a terra, nello sterrato del cortile. Canottiera intrisa di sangue, a terra nemmeno una goccia del suo sangue.
Ucciso, dicono, dagli agenti che lo braccavano. Così fu raccontato per i cronisti che giunti da tutta Italia presidiarono la zona. Giuliano ucciso dai suoi compari si scoprì presto, Aspano Pisciotta, il suo braccio destro lo uccise per poi lui venire ucciso con un caffè all’arsenico mentre era in carcere all’Ucciardone di Palermo. Un delitto che fece guadagnare potere alla mafia, che più accumulava segreti, più era protagonista di commistioni, più si infiltrava nel tessuto sociale dell’isola, per arrivare poi dentro le banche, le istituzioni, l’industria.
Una decina di anni dopo altro mistero, altro giallo. La bomba piazzata nell’aereo di Enrico Mattei il presidente dell’Eni. Il velivolo decollò dalla Sicilia con dentro l’ordigno. Una morte che più che alla mafia serviva ai grandi potentati economici che gestivano il petrolio e dei quali Mattei era diventato il nemico pubblico numero uno. Erano gli anni in cui le rotte tra la Sicilia e i paesi Arabi sono parecchio frequentate, scambi anche e soprattutto illeciti, armi, droga. Anche dall’Est europeo si guarda alla Trinacria, le rotte commerciali sono le stesse sulle quali viaggia lo stupefacente. Le scopriranno negli anni ’80 due magistrati, una lavorava a Trento, Carlo Palermo, un altro a Trapani, Gian Giacomo Ciaccio Montalto. Montalto fu ucciso il 25 gennaio del 1983, Palermo sfuggì ad un agguato di mafia, una bomba al tritolo piazzata dentro un’auto a Pizzolungo, il 2 aprile 1985, morirono Barbara Rizzo Asta ed i suoi due figli, i gemelli di sei anni, Salvatore e Giuseppe. Palermo e Montalto senza parlarsi si erano imbattuti in due nomi, Karl Khlofer e Nanai Crimi, altoatesino, narcotrafficante il primo, capo della mafia trapanese il secondo.
La mafia è in contatto con ambienti esteri, i Messina Denaro, quelli di Castelvetrano, Francesco, il “patriarca” della mafia belicina, campiere delle più famose famiglie nobiliari e latifondiste di Trapani, come i D’Alì, i Piacentino, gli Aula, non a caso è soprannominato il “ministro degli Esteri” proprio per i suoi contatti con i paesi nord Africani e Arabi. L’Italia teme l’influenza di questi paesi ma deve essere cauta, il presidente del Consiglio di quegli anni è Giulio Andreotti, uno di quelli che di facciata è uomo alleato col Medio Oriente, ma dietro le quinte tenta di controllare le mosse di quella parte del mondo che è stata sempre in ebollizione. La mafia è lo strumento giusto per controllare senza tanta diplomazia. L’estrema destra è poi quella che con il terrorismo mediorientale va in un certo senso a braccetto, e in Sicilia ci sono i campi para militari per fare venire ad esercitare i terroristi italiani e stranieri. La mafia fa da garante, in cambio di droga, esplosivi e armi. In tutto questo in Sicilia però si continua a morire. Cadono uomini dello Stato, vengono dilaniati da autobombe i capi mafia, vengono uccisi i giornalisti, quelli che indagano anche sulle trame nere come Spampinato, De Mauro, o sulle grandi connessioni mafiose come Mario Francese, Pippo Fava, per fare alcuni nomi. Avvengono sequestri anomali, come quello dell’esattore Luigi Corleo di Salemi, sequestro che dopo il dolore farà la fortuna dei cugini esattori Nino e Ignazio Salvo, anche loro di Salemi, potenti uomini della Dc. Quando negli anni ’80 il Governo Spadolini decise di mettere mano ai guadagni degli esattori Salvo, il governo del leader repubblicano nello spazio di ore si sciolse. In Sicilia dagli anni ’50 in poi, dalla morte del bandito Salvatore Giuliano, si è combattuta, e si combatte, una continua guerra, tanto che non a caso Paolo Borsellino diceva che la supremazia dello Stato, la democrazia e la libertà democratica, la si difendono facendo ogni giorno la guerra alla mafia in Sicilia, e Leonardo Sciascia preoccupato parlava anche della famosa “linea della palma” che poco a poco ha spostato in Europa i margini del territorio governato a questo punto non dalla mafia, ma dalle “mafie”. Uno Stato che però dentro aveva i suoi nemici, politici, imprenditori, deputati e ministri, assieme a vescovi e cardinali, erano quelli che nei salotti ospitavano i mafiosi, tanto rispettati e riveriti.
In Sicilia si racconta che le cellule di Gladio arrivarono negli anni ’80. La struttura militare che doveva difendere l’Italia da una possibile invasione dell’Est europeo, in Sicilia, in un punto lontanissimo dalle frontiere dell’Est, aveva invece le sue basi già dagli anni settanta. Addirittura in provincia di Trapani di basi Gladio ne aveva ben quattro, una addirittura nella roccaforte comunista di Santa Ninfa, quando a comandare la casera dei carabinieri del paese belicino c’era un maresciallo tutto d’un pezzo, Giuliano Guazzelli, ammazzato poi nel periodo delle stragi ad Agrigento. Un delitto che fece pubblicamente inorridire il giudice Paolo Borsellino. Come se avesse compreso che quella non era una vendetta per le indagini commesse. Ma forse qualcos’altro. Era il periodo in cui il dialogo sottobanco con le istituzioni la mafia aveva decido di interromperlo. E mandava segnali. Segnali di morte. Nel trapanese Gladio aveva una pista dove faceva atterrare aerei super leggeri, la stessa pista, dalle parti di Castelluzzo, in un punto in cui i radar non vedono niente, che secondo i pentiti della mafia siculo americana era quella utilizzata per fare arrivare la droga da raffinare. E come ha raccontato il pentitoa Francesco Marino Mannoia in provincia di Trapani non solo c’erano le raffinerie stabilmente impiegate, ma anche quelle mobili.
Gladio come struttura del “dialogo” tra la mafia e lo Stato. Non è da escludere. Tenere sotto attenzione i movimenti in Medio Oriente e in Nord Africa per lo Stato può avere significato pagare un prezzo. Un prezzo alla mafia che si è messa di mezzo, ha aperto i suoi canali. Ha giocato al solito con più mazzi di carta, talvolta, e non di rado, facendo i lavori sporchi. Eliminando i soggetti scomodi. Ai magistrati di Trapani che negli anni '90 indagavano su Gladio venne preso a mancare una «pedina» importante, il capo del «Centro Scorpione», il maresciallo del Sismi Vincenzo Li Causi, ucciso, nel 1993, in circostanze misteriose in Somalia dove era andato in missione. Si disse durante un improvviso conflitto a fuoco, ma tanti dubbi sono rimasti. Li Causi, originario di Partanna, era in procinto di tornare in Italia, per essere sentito proprio dai magistrati di Trapani che indagavano su Gladio. Il suo nome è circolato anche a proposito del delitto, sempre commesso in Somalia, un anno dopo il suo, di Ilaria Alpi, Li Causi infatti sarebbe stato la sua «fonte» sui traffici di armi e di scorie coperti da settori governativi.
Di Gladio trapanese si è tornati a parlare da quando è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto fare parte della struttura segreta. Lo ha svelato il figlio dell’ex sindaco, Massimo, nei giorni più intensi di rivelazioni e rivelazioni sulla trattativa tra Stato e mafia. Scacchiere nel quale si muovevano anche i mafiosi trapanesi. Alcuni di questi avrebbero avuto contatti con agenti dei servizi. Legami maturati nel tempo, dietro i quali ci potrebbero essere traffici di armi come un ex gladiatore afferma in una intervista Rai del 2006. Il video gira su Youtube. È estrapolato da una puntata di una trasmissione di Rai Tre che si occupò del delitto della giornalista Rai Ilaria Alpi. Incappucciato e presentato da chi lo intervista come ex appartenente a Gladio, c’è un uomo che racconta, parla di traffici di armi, e di scorie pericolose. Parla di Gladio, dice «una struttura impiegata per i traffici di armi». La ricostruzione non è nuova. «Gladio» usata per far passare da una punta all’altra dell’Italia, carichi di armi o di rifiuti tossici, destinati poi a paesi esteri. Un traffico che secondo un ex faccendiere, Francesco Elmo, si sarebbe intensificato dagli anni ’80 in poi. Quell’«intensificato» fa presupporre che esistevano anche anni prima. In Sicilia poi ci sarebbe stato un particolare in più i «contatti» con la organizzazione mafiosa. «Gladio spiava Cosa nostra» ha fatto mettere a verbale Paolo Fornaro, uno degli ufficiali che si occupava di «Gladio» trapanese, Elmo invece parlò semmai di un vicendevole scambio di favori tra la struttura segreta ed i mafiosi. La presenza tra i «gladiatori» di Ciancimimo in questo senso potrebbe starci per davvero. Lo scenario è quello che sembra possa coincidere con quello del delitto Rostagno (26 settembre 1988) dove non è una sensazione la possibilità di «contatti» tra mafiosi e «soggetti esterni» interessati a quell’omicidio. Non dimentichiamo che il magistrato Giovanni Falcone che seguiva il processo La Torre e le attività dei Servizi Segreti fu bloccato nella sua richiesta di contatti con i magistrati romani che indagavano su Gladio dal procuratore di Palermo Pietro Giammanco. Falcone riteneva che su questo punto si dovesse indagare, Gladio col delitto La Torre poteva entrarci qualcosa, ma si trovò di fronte a un muro posto dal procuratore Capo. Gladio destò anche molto interesse al magistrato Carlo Palermo che nel suo libro "Il quarto livello" scrive che "a Trapani era presente una base militare Nato.