di Monica Centofante - 30 novembre 2011
C’è anche un collegamento tra la mafia siciliana e quella calabrese nelle carte dell’operazione Araba Fenice, che ieri ha portato in carcere 16 presunti affiliati al mandamento palermitano di Brancaccio. Da sempre capeggiato dalla potente famiglia mafiosa dei Graviano, tra i principali protagonisti della stagione stragista dei primi anni Novanta.
Il legame passa attraverso la figura di Giovanni Torregrossa, alias “Johnny” (classe 1977), inserito nella stessa cosca e il cui nome è apparso costantemente nelle indagini che hanno avuto ad oggetto i fratelli di Brancaccio. Tanto che è citato più volte nella grande quantità di appunti sequestrati all’avv. Salvo (tramite tra i detenuti Filippo e Giuseppe Graviano e la sorella Nunzia, referente della cosca, fino a ieri in libertà) e nei quali venivano indicati in modo criptico tutti gli affari dei boss.
Torregrossa, uomo di fiducia di Cesare Lupo, a sua “completa disposizione”, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, “ha mantenuto anche contatti con esponenti di primissimo piano della ‘Ndrangheta calabrese”. E il riferimento è ad un incontro, documentato dagli investigatori, tra lo stesso Torregrossa e Gioacchino Piromalli classe 1969, elemento di spicco dell’omonima ‘ndrina tra le più potenti della mafia calabrese e operante nel comprensorio della Piana di Gioia Tauro.
L’incontro in questione, avvenuto a Palermo, risale all’11 dicembre del 2007, data particolarmente significativa poiché richiama alla mente altre storie, ma sempre gli stessi nomi. In quei giorni infatti, mentre si avvicinano le elezioni elettorali, c’è fermento tra i boss di vertice della cosca Piromalli, che sulla Piana hanno in mano tutto: la politica, gli affari del Porto, i business internazionali. E contano sull’appoggio di uno dei loro referenti privilegiati: Aldo Micciché, faccendiere, già dirigente della Democrazia Cristiana, rifugiato da tempo in Venezuela, dopo aver sommato 25 anni di “cumulo pena” per diversi reati. Micciché, secondo gli inquirenti, è l’uomo che mette a disposizione dell’intero sodalizio “il proprio tessuto relazionale costituito da uomini politici, pubblici ufficiali, imprenditori e professionisti nel campo degli affari cui offriva i vantaggi di qualsivoglia genere che derivavano dal potere esercitato dal sodalizio di cui faceva parte”.
Proprio in quei primi giorni di dicembre, mentre Gioacchino Piromalli si incontra con i mafiosi di Brancaccio, Micciché si sente al telefono con Gioacchino Arcidiaco, cugino del boss Antonio Piromalli, al quale fornisce delucidazioni in merito ad un importante riunione a cui il boss si sarebbe recato di lì a poco. La riunione è con il senatore Dell’Utri, amico di Miccichè, al quale i Piromalli avrebbero chiesto dei favori fornendo in cambio appoggio elettorale. Al senatore, sottolinea Miccichè, “devi dire che la Piana è cosa nostra”, “il Porto di Gioia Tauro lo abbiamo fatto noi… Fagli capire che in Aspromonte e tutto quello che succede là sopra è successo tramite noi”. E “ricordati che la politica si deve saper fare...” Poi sottolinea: “Ho avuto l'autorizzazione di dire che gli possiamo garantire Calabria e Sicilia”.
Un’affermazione, quest’ultima, particolarmente indicativa che già nel 2008 gli inquirenti inserivano all’interno di un quadro di rapporti che da tempo l’organizzazione mafiosa siciliana intratterrebbe con quella calabrese. E in cui sarebbe possibile ricomprendere anche la famosa riunione tenuta in quello stesso anno, all’interno del carcere di Tolmezzo, tra il boss Giuseppe Piromalli e capi siciliani della portata di Antonino Cinà.
Oggi a quelle ricostruzioni si uniscono nuovi interessanti elementi. Tra i più recenti le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Fabio Tranchina che nel corso di un interrogatorio, lo scorso 9 maggio, ha parlato proprio dei rapporti tra Cesare Lupo e Gioacchino Piromalli. Che gli stessi Tranchina e Lupo, nel 2004, sarebbero andati a visitare a Gioia Tauro.
Un quadro di rapporti, quindi, tutto da esplorare e che potrebbe aprire a nuovi interessanti scenari.
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