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carabinieri-bigCome il capomafia Passalacqua gestiva la famiglia mafiosa
di Aaron Pettinari - 15 novembre 2011 - FOTO E VIDEO DELL'OPERAZIONE ALL'INTERNO!
La base operativa della famiglia mafiosa era la pescheria di Vito Caruso, al bivio Foresta di Carini. Era stata trasformata in centrale dello spaccio di droga e luogo d'incontri tra i mafiosi. Qui le donne dei carcerati si rifornivano di pesce, naturalmente senza pagare. Tra i più assidui frequentatori della pescheria c'era Giuseppe Evola.

Questi è conosciuto come Giò o Giò l’americano, per i suoi trascorsi negli Stati Uniti d’America ove per anni ha gestito un numero imprecisato di attività, in prevalenza pizzerie. E' seguendo quest'ultimo che i carabinieri sono arrivati fino al capomafia Passalacqua.
Uomo all'antica, costretto ai domiciliari per un malore, viveva in una specie di fortino. La casa non solo era riempita di telecamere, ma era protetto anche dall'operato del vicinato, che gli garantiva il totale controllo di quanto avveniva all'esterno delle mura domestiche. Addirittura i bambini erano stati addestrati per segnalare la presenza delle forze dell'ordine qualora notassero qualcosa di sospetto.

Grazie ad un'intensa attività di investigazione gli inquirenti hanno così svelato il modus operandi del padrino. Molto spesso a fargli visita c'erano Gianfranco Grigoli e Salvatore Sgroi, suo genero, nonchè sorvegliato speciale per reati di droga. Questi rappresentavano la 'longa manus' del boss nel territorio, assieme a Vito Failla. Grigoli girava spesso nei cantieri ed era tornato in città proprio per volere dello stesso Passalacqua.

Il boss e il codice d'onore
Il codice d'onore di Cosa Nostra esiste ancora. Il 'padrino' seguiva regole antiche ed inviolabili e decideva anche sulla vita e la morte di chi le infrange. La conferma è arrivata dalle intercettazioni registrate durante l'operazione “Grande Padrino”. Nel caso specifico il titolare di un bar di Carini, dopo op-gran-padrino-bigavere subito il furto dell'auto, si era rivolto in prima persona a Cosa Nostra. A questo punto, i gregari di Passalacqua, hanno individuato l'autore del furto in uno dei dipendenti del bar. Un comportamento giudicato particolarmente grave dagli uomini di onore: “Dove si mangia e si beve lì si va a rubare?”. Così i boss in un primo momento avevano deciso di punire, uccidendolo, l'autore del furto. L'uomo venne portato in montagna dove doveva essere giudicato secondo le regole del Codice d'onore, tanto che era già pronta una fossa per occultarne il cadavere.
Ma il colpo di scena finale conclude la vicenda con un lieto fine. Il ladro aveva invocato il perdono del datore di lavoro: “Non piangeva per paura -si sente in un'intercettazione- piangeva come un bambino per la vergogna, per la brutta figura che ha fatto perchè quello aveva una fiducia da morire...”. Ed è così che il titolare del bar ha perdonato il dipendente infedele baciandolo sulla guancia e continuando a tenerlo al lavoro: «Tutti possiamo sbagliare nella vita, o no? - ha spiegato poi in seguito ai suoi 'amici'- Giustamente si meritava di essere licenziato...».
All'interno della cosca naturalmente un occhio di riguardo veniva dato ai familiari dei carcerati. Per loro il capomafia faceva di tutto per trovargli un posto di lavoro e, se necessario, pure per fargli avere un aumento dello stipendio: “Gli sembravano pochi a quella sicuramente 500 euro al mese…….e gliene facciamo…gli facciamo dare 1000 Euro, …ma che vorrebbero…”

Tale padre tale figlia
Secondo gli inquirenti tra i soggetti che avrebbero fatto parte del vertice operativo della famiglia anche la figlia di Passalacqua, Margherita. La donna avrebbe dimostrato di essere la diretta referente delle strategie del padre. Sapeva come comportarsi. Aveva la rudezza dei maschi e diceva: “Se tu pensi di prendere per il... gli ho detto un cristiano che ha due anni che è agli arresti domiciliari, tu hai sbagliato numero di casa... Ti vai a impiccare gli ho detto, voglio tutti i soldi questa settimana, perchè ti finisco, da femmina e buona ti alzo uno schiaffo ti sconzo... qua...”. E ancora: “... se io devo decidere... le persone non devono capire... nie... lei arriva e comanda lei, suo padre non passa e non conta più... giusto a papà... giusto è... oh... alle persone gli dico... senti qua prima... gli dico, voglio la risposta di mio padre io, perchè è buono che la padrona sono io gli dico, però io senza... se non... ho il consiglio di mio padre... non me lo vado a fare”.
Durante un resoconto che la donna faceva al padre di un incontro avuto con un imprenditore questa diceva “perchè non vorrei, io non so come funziona, non vorrei che appena sono qua qualcuno mi viene a disturbare...” ... dice, “se la signora gli dice che è tranquilla dice, ....che è tranquillo qua, lei può stare sicuro...”. Per i pm Margherita aveva la forza dell'intimidazione mafiosa di un “uomo d'onore”. “Ma papà, lo sai qual è il problema?... che noi ci facciamo troppa pietà degli altri... E gli altri pietà di noi non se ne sono fatti mai e allora oggi rispondo al contrario, non ho pietà per nessuno...” diceva in una delle intercettazioni.

Il rischio di una nuova guerra di mafia
Il 27 aprile 2009, all’interno del residence Serracardillo a Villagrazia di Carini, veniva incendiato un escavatore di proprietà di Giacomo Lo Duca.
Quest'ultimo è un gregario di Passalacqua, titolare di un'impresa di movimento terra operante su tutto il territorio carinese. Si trattò di un vero e proprio segnale ritorsivo ai danni di una delle principali attività economiche della famiglia, il movimento terra che da sempre porta ad innumerevoli guadagni.
Un fatto che creva grande scompiglio all'intero della famiglia in quanto erano saltati degli accordi precedenti. "No, non li hanno fatti lavorare più, ai camion di Cagnuleddo, mi hai capito?..." - commentava Giuseppe Evola - "Cagnuleddo gli ha fatto comprare l'escavatore, lui e li ha messo in mezzo lui... A questi due li ha messo, Battista neanche li ha guardati a questi, li ha messi in mezzo Cagnuleddo... Gli ha fatto trovare l'escavatore, il camion, tutte le cose, e sono rimasti con Cagnuleddo, Compà voi scavate ed io… si è comprato anche il camion, mi hai capito?..". L'incendio del mezzo, dunque, venne interpretato come un avvertimento per Lo Duca. I responsabili dell'atto intimidatorio furono subito individuati dagli investigatori: Antonino Buffa e Croce Maiorana, rispettivamente cognati degli uomini d'onore, all'epoca reclusi, Giuseppe Pecoraro e Antonino Pipitone. E da loro sarebbe giunto l'ordine dell'azione. Lo Duca dopo aver convocato i due soggetti riuscì a fargli ammettere di aver commesso il fatto fingendo di avere delle telecamere.
A quel punto la vicenda diventò tragedia. Dal carcere giunsero addirittura minacce di suicidio dal parte del Pecoraro, che temeva per l'incolumità del cognato Buffa.
Toccò a Passalacqua emettere il verdetto. I suoi gregari erano pronti anche ad imbracciare le armi ma alla fine prevalse il buon senso dell'anziano capomafia. La vicenda si concluse con l'impegno assunto da Buffa e Maiorana a ripagare il mezzo danneggiato, nelle more sostituito con un escavatore messo a disposizione dal suocero dello stesso Buffa.
I due comunque furono costretti ad abbandonare immediatamente Carini e la Sicilia per raggiungere gli Stati Uniti.


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