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Un servizio di 'Striscia la Notizia' riapre il dibattito sull'assegnazione
di Aaron Pettinari - 6 ottobre 2010

L'argomento non è semplice e da sempre istituzioni e società civile impegnate nell'antimafia discutono in merito alle modalità di assegnazione e di impiego dei beni confiscati ai mafiosi. Timore principale è proprio quello che i boss tentino, il più delle volte tramite prestanome come dimostrato in diverse inchieste giudiziarie, di riappropiarsene.

La Procura di Palermo, da mesi, ha aperto diversi filoni di indagine sulle assegnazioni di alcuni beni confiscati alla mafia anche da parte dell'amministrazione comunale. L'inchiesta, avviata in seguito a denunce di associazioni e cittadini e segnalazioni della Prefettura, si è inizialmente concentrata sui criteri adottati dal Comune per scegliere i destinatari dei beni ed è stata assegnata ai sostituti procuratori Gaetano Paci e Francesca Mazzocco, coordinati dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci, i quali avrebbero già ravvisato infiltrazioni di alcuni boss legati alle cosche di San Lorenzo, Brancaccio, Boccadifalco e Passo di Rigano.
In questi giorni però le indagini si starebbero arricchendo di un nuovo capitolo.
Secondo quanto rivelato da un servizio di Stefania Petix, andato in onda sul telegiornale satirico di Canale 5 “Striscia la Notizia”, la criminalità organizzata si starebbe organizzando anche in altri modi. Prendendo a riferimetno un'informativa del 2008 della prefettura palermitana l'inviata è andata ad affrontare il tema dell'assegnazione dei beni confiscati a Palermo.
L’amministrazione comunale del capoluogo siciliano aveva assegnato alcuni di questi alle associazioni fondate da uno dei simboli dell'antimafia palermitana, don mario Golesano, successore di don Pino Puglisi nella parrocchia di Brancaccio: la Solaria e la Fondazione Puglisi. L'anno scorso, dopo una nota della prefettura, il Comune aveva revocato ben tre assegnazioni fatte alle due associazioni per poi restituirgliele.
La prefettura aveva anche segnalato che don Golesano era socio di una terza associazione, la "Live Europe", assieme a Roberta Bontade e a Stefano Marcianò, entrambi “imparentati con soggetti mafiosi”, e a Francesco Maggiore, “indicato in atti relativi a procedimenti penali come soggetto appartenente alla cosca mafiosa di Bagheria”. Inoltre, secondo quanto scritto nell'informativa, “nella fondazione Puglisi siederebbe tale Giuseppe Provenzano, socio della "Alimentari Provenzano", le cui quote sociali sono detenute da società sottoposte a sequestro preventivo in quanto facenti parte del gruppo Grigoli, a sua volta sottoposto a custodia cautelare ed avente rapporti con boss latitante Matteo Messina Denaro”.
Tuttiva il Tar, intervenuto nella questione, ha dato ragione a Golesano e soci, annullando i provvedimenti presi dal Comune in quanto “è documentale che i soci della Live Europe Bontade, Marcianò e Maggiore siano stati allontanati dalla relativa associazione sin dal 2008 per disinteressamento alle attività associative”, così come per Provenzano. Pertanto il Comune ha dovuto riassegnare i beni alle associazioni, pur presentando un nuovo ricorso al Cga (Consiglio di giustizia amministrativa) contro la decisione del Tar. In questa serie di passaggi a colpi di carte bollate si inserisce il servizio di Striscia che accende i riflettori su una possibile fuga di notizie all'interno del Comune di Palermo. Infatti secondo i documenti della Live Europe, Roberta Bontade e altri soci sarebbero usciti dalla società il 10 ottobre 2008, sei giorni prima dell'informativa della prefettura al Comune di Palermo che segnalava la presenza all'interno della società di persone «imparentate con soggetti mafiosi» mentre il 17 ottobre, un giorno dopo l'iscrizione a protocollo da parte del Comune del'informativa della prefettura, sono usciti dalla società don Golesano e altri.
Nel frattempo a spiegare la propria posizione è proprio l'ex parroco di Brancaccio, che ha già annunciato di aspettare “il percorso delle querele che gli avvocati riterranno giusto predisporre, con la consapevolezza di non avere mai avuto niente a che vedere con la mafia”. “Mi dispiace moltissimo per Roberta oggi giovane mamma e moglie non capisco bene in nome di quale guerra santa è stata umiliata - ha detto - Quando Roberta Bontate (figlia di Giovanni Bontate, ucciso assieme alla moglie il 28 settembre 1988) venne da me per dirmi che voleva partecipare alla Live Europe, nata per aiutare e stringere rapporti con i Paesi del Nord Africa, andai subito dall´allora procuratore Pietro Grasso per comunicarglielo. Roberta ha contribuito all´organizzazione di colonie e all'aiuto di alcune famiglie nordafricane che vivevano a Palermo grazie a un libretto del padre, di 40 milioni di lire, all'epoca dissequestrato”.

Attività di volontariato che la stessa Bontate avrebbe interrotto a partire dal 2004 come ha raccontato: “Sono figlia di Giovanni Bontate - scrive in una nota - ma questo non significa che alla nascita sono stata marchiata a fuoco con la lettera M e soprattutto questo non deve significare che lo stesso marchio deve essere trasferito ai miei figli. L'essere donna e ragazzina ha contribuito a farmi crescere in un ambiente completamente estraneo da quello mafioso nella mia vita ho sempre vissuto nella convinzione di dovere in un certo senso pagare e sdebitarmi di colpe non mie e per questo ogni occasione di interesse sociale che mi si è presentata l´ho colta con entusiasmo”.
Don Golesano infine ha voluto precisare: “Attualmente la fondazione non ha beni confiscati in uso, in quanto sono stati revocati e, nonostante il pronunciamento a nostro favore del Tar, mai riaffidati. Il nostro bilancio è di circa 250 mila euro e si alimenta solo con donazioni”. Elementi che ora sarebbero al vaglio degli inquirenti. A criticare l'autodifesa dell'ex parroco è intervenuto il presidente del Centro Padre Nostro di Brancaccio: “Golesano ha fatto l´errore di andarsene dal Centro, disperdendo in numerosi rivoli l'eredità di don Puglisi ma gli è andata male: ha creato cloni geneticamente disturbati”. Quindi ha aggiunto: "Il nome di don Pino Puglisi andava protetto. La Diocesi doveva averne il copyright e vegliare che tutto ciò che si muovesse attorno al suo nome fosse inattaccabile non solo sul profilo legale ma anche etico e morale".

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