Le inchieste “Stirpe” e “Stirpe 2” hanno svelato un sistema radicato. Diverse parti civili unite per dire no alla mafia
Nel cuore di Brancaccio, a Palermo, con ventisei condanne e due assoluzioni si chiude uno dei processi più incisivi contro il racket delle estorsioni. Si tratta dell’epilogo giudiziario di un’inchiesta che, fin dal 2021, ha portato alla luce un vero e proprio sistema basato sul pizzo imposto “a tappeto” in ogni angolo del territorio, dai negozi agli ambulanti, fino ai più piccoli artigiani. La Corte d’Appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, ha in gran parte confermato le pene severe già inflitte in primo grado, segnando la continuità di un sistema di potere criminale ancora vivo, capace di muoversi tra intimidazioni, paura e silenzi.
Le condanne confermate restano pesanti. Tra le più alte - ha fatto sapere “PalermoToday” - figurano quelle di Maurizio Di Fede, condannato a oltre sedici anni, e di Tommaso Militello, cui ne sono stati inflitti quattordici. Seguono Antonino Lo Nigro e Antonino Chiappara, rispettivamente con tredici e dodici anni di carcere. Piccole riduzioni hanno riguardato altri imputati, ma la sostanza del verdetto non cambia: la giustizia ha riconosciuto l’esistenza di una rete estorsiva capillare e organizzata, un meccanismo che imponeva versamenti sistematici a un clan in grado di controllare l’intero quartiere.
Le inchieste “Stirpe” e “Stirpe 2”, coordinate dai magistrati Francesca Mazzocco e Bruno Brucoli, avevano infatti fatto emergere un quadro sconcertante. Gli esattori del pizzo avevano così tante vittime da non riuscire a ricordarle tutte, mentre gli imprenditori, travolti dalla paura, si trinceravano dietro un silenzio complice.
Nel processo si sono costituite numerose parti civili: il Comune di Palermo, la Fondazione Falcone, il Centro Pio La Torre, la Fai, Confcommercio e altre associazioni impegnate nella lotta alla mafia. La loro presenza, più che formale, è stata simbolica, come un messaggio di resistenza civile contro la paura e la sottomissione.
Particolarmente interessante è la figura di Vincenzo Petrocciani, 43 anni, condannato a undici anni nel processo “Stirpe”, che ha deciso di collaborare con la giustizia ed è entrato nel programma di protezione. Una scelta, quella di Petrocciani, che sembra rivelarsi rilevante per far luce sui nuovi equilibri del mandamento di Brancaccio. Anche e soprattutto perché, dietro al racket, i magistrati hanno individuato un’alleanza tra i mandamenti di Porta Nuova, Tommaso Natale e Brancaccio, legata a un imponente traffico di stupefacenti provenienti da Calabria e Campania. Ed è proprio in questo contesto che si collocherebbe Petrocciani: non una figura ai vertici mafiosi, ma comunque ritenuta a conoscenza di retroscena cruciali, soprattutto dopo l’omicidio di Giancarlo Romano, boss emergente della nuova mafia di Brancaccio.
Foto © Imagoeconomica
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