Nessun ravvedimento, il figlio di Totò Riina rifiuta persino i lavori più umili pur di conservare il carisma di leader mafioso
Già all’inizio di quest’anno la Direzione nazionale antimafia aveva precisato che Giovanni Riina, figlio del “capo dei capi” Totò Riina, resta una figura di estrema pericolosità, ancora capace di mantenere legami con Cosa nostra e di influenzarne le dinamiche interne. Secondo il sostituto procuratore Franca Imbergamo, i mandamenti mafiosi palermitani continuano infatti a ispirarsi alle regole tradizionali dell’organizzazione, che, nonostante crisi e mutamenti, conserva una struttura di potere fondata su principi consolidati. Principi che Riina junior non sembra voler rinnegare.
Oggi la Corte di Cassazione, con una decisione depositata lo scorso 12 settembre, ha confermato la proroga del 41-bis per Giovanni Riina. Lo ha fatto sottolineando come non siano emersi elementi tali da dimostrare una reale volontà di distacco dall’organizzazione mafiosa. Oltretutto, dalle indagini della Direzione distrettuale antimafia di Palermo era emerso che, tra il 2000 e il 2002, Riina junior, pur essendo detenuto, era riuscito a mantenere contatti e a esercitare funzioni direttive all’interno della famiglia mafiosa di Corleone.
Secondo la Cassazione, Riina era divenuto un “punto di riferimento strategico” per la consorteria mafiosa, un leader in grado di ispirare e orientare le iniziative criminali dei corleonesi anche da dietro le sbarre. E non solo: attraverso l’investitura paterna aveva assunto poteri decisionali sulla gestione delle attività illecite e sulla distribuzione dei proventi, confermando il ruolo di vertice nell'organizzazione del gruppo dopo la cattura di Totò Riina. Una leadership che, per i giudici, non si è mai davvero spenta e continua a proiettare la sua ombra sul presente.
Ad ogni modo, a gravare ulteriormente sulla posizione del detenuto è anche la valutazione del suo comportamento carcerario. Riina non avrebbe mai mostrato segni di autentico ravvedimento, né compiuto gesti simbolici di riconciliazione verso le vittime dei suoi crimini. Al contrario, la sua condotta dietro le sbarre appare coerente con l’immagine di un uomo ancora profondamente legato ai codici d’onore tipicamente mafiosi. Particolarmente emblematico, in questo senso, è il rifiuto di svolgere i lavori più umili previsti in carcere, come quelli di “portavitto” o “scopino”. Si tratta di una scelta che, secondo i magistrati, risponde al bisogno di mantenere intatto un certo carisma, di distinguersi dagli altri detenuti per ribadire una superiorità simbolica, la stessa che in passato gli derivava dal suo cognome e dal ruolo nella gerarchia criminale.
E’ per questo motivo che la Cassazione ha ritenuto inevitabile confermare la misura del 41-bis. Non si tratterebbe - hanno spiegato i giudici - di un collegamento operativo attuale con il contesto criminale, ma della perdurante potenzialità di Riina di interagire con esponenti dell’organizzazione mafiosa, influenzandone o orientandone le dinamiche interne.
Insomma, la decisione dei giudici, oltre a ribadire la rigidità del 41-bis, ha messo in luce un punto più profondo. Ovvero, la difficoltà, per chi è cresciuto dentro le logiche ferree della mafia, di liberarsene davvero. In carcere dal 1996, Giovanni Riina sta scontando l’ergastolo per tre omicidi commessi a Corleone nel 1995.
Fonte: Il Sole 24 Ore
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