Claudio Domino aveva solo 11 anni. Era un bambino come tanti, cresciuto nel quartiere San Lorenzo di Palermo. La sua vita era fatta di scuola, giochi in strada, partite a pallone con gli amici. Il padre, Antonio Domino, era titolare di un’impresa di pulizie che aveva in appalto il servizio nell’aula bunker dove, proprio in quel periodo, si celebrava il Maxiprocesso a Cosa nostra. Una famiglia normale, travolta da un dolore inimmaginabile. La sera del 7 ottobre 1986, verso le 21:00, Claudio sta tornando a casa con alcuni amici. Hanno appena finito di giocare. All’improvviso, un uomo in sella a una potente moto si avvicina, lo chiama per nome. Claudio si avvicina senza paura. L’uomo estrae una pistola calibro 7,65 e gli spara un colpo secco in fronte. Claudio cade a terra. Muore sul colpo.
Un’esecuzione mafiosa contro un bambino
La modalità dell’agguato è quella di una classica esecuzione mafiosa. Ma la vittima è un bambino. Un’innocenza spezzata in modo brutale. L’Italia è sconvolta. I giornali rilanciano la notizia, si aprono interrogativi e indagini. Ma nonostante l’indignazione iniziale, la verità sull'omicidio di Claudio non è mai emersa completamente. Nel clima teso di quegli anni — Palermo è sotto assedio, lo Stato comincia a colpire Cosa nostra — la morte del piccolo diventa un caso scomodo. E come spesso accade, l’attenzione si sposta dalle responsabilità mafiose ai sospetti sulla famiglia.
“Si indagò male, si indagò su di noi, perdendo solo tempo”, dirà anni dopo Antonio Domino. “Un poliziotto capì che si stava sbagliando tutto, ma fu troppo tardi”.
Tante ipotesi, nessuna certezza
Le indagini si sono mosse su più piste, senza mai arrivare a una verità definitiva. Una prima ipotesi fu che Claudio avesse visto qualcosa che non doveva vedere: forse dosi di eroina confezionate in un magazzino, forse volti di spacciatori mentre giocava in strada. Il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi riferì che, subito dopo il delitto, Totò Riina riunì la Commissione di Cosa nostra e ordinò di scoprire i colpevoli per "punirli". Secondo il pentito Giovanbattista Ferrante, l’omicidio fu ordinato da Salvatore Graffagnino, titolare del bar davanti al quale Claudio fu ucciso. Temendo che il bambino potesse rivelare alcuni traffici di droga, avrebbe pagato un tossicodipendente per eliminarlo. Dopo l'omicidio, Graffagnino fu sequestrato e ucciso, probabilmente da uomini vicini a Giovanni Brusca, in quello che fu definito un “omicidio pedagogico”: una lezione esemplare per chi aveva agito senza
il consenso della cupola. La madre del piccolo, Graziella Acetta, ha replicato duramente: “Lo Stato dovrebbe darci una risposta. È una doppia sconfitta. Siamo stati uccisi anche noi. I nostri figli sono delusi da questo Stato”. 
La voce della mafia al Maxiprocesso
La morte di Claudio Domino avviene durante il Maxiprocesso, evento storico che vede per la prima volta lo Stato opporsi frontalmente alla mafia. Proprio in quell’aula bunker, Giovanni Bontade, fratello del boss Stefano Bontade, prende la parola e legge un comunicato: “Noi vogliamo fugare ogni sospetto... Rifiutiamo l’ipotesi che un simile atto di barbarie ci possa solo sfiorare. Noi siamo uomini, abbiamo figli. Esterniamo il nostro dolore alla famiglia di Claudio”. Quel "noi", detto davanti ai giudici, è una dichiarazione pesante: un’ammissione indiretta dell’esistenza della mafia come organizzazione criminale. Un anno dopo, Giovanni Bontade e sua moglie verranno uccisi. Puniti, forse, per aver “parlato troppo”.
Un dolore che diventa testimonianza
Dopo l’assassinio del figlio, Antonio e Graziella Domino sono andati nelle scuole a raccontare la storia di Claudio e quella di altri 108 bambini uccisi dalla mafia. Lo fanno per dare un senso alla memoria, per insegnare che solo conoscendo si può cambiare. Durante uno di questi incontri, Graziella Accetta ha letto con emozione la poesia “Alito di vento”, scritta da una bambina: "Poi all’improvviso un uragano, un ciclone, una tempesta, forse un tornado, non so cosa è stato, con sé ti ha portato." Per i ragazzi che l’ascoltano, Graziella è un simbolo di forza. Una madre che, invece di cedere alla disperazione, ha scelto di trasformare il suo dolore in impegno civile, affinché nessuno dimentichi Claudio e i troppi bambini come lui, uccisi dall’odio, dall’omertà, dalla violenza.
Una verità negata, una memoria viva
A quasi 40 anni da quel 7 ottobre 1986, nessuno è stato condannato per l’omicidio di Claudio Domino. La giustizia non è mai arrivata: la procura di Palermo ha chiesto l'archiviazione del caso. Il legale della famiglia, Antonio Ingroia, si è opposto. L'ennesima battaglia di una famiglia sengnata dal dolore.
Eppure, la sua storia continua a vivere nei racconti della madre e del padre. Nei cortei, nelle scuole, nei murales, nei progetti educativi. Claudio è una ferita ancora aperta, ma anche una bandiera che sventola per ricordarci da che parte stare. Perché la mafia non uccide solo chi colpisce. Uccide famiglie, comunità, memorie. Ma ogni volta che qualcuno racconta la storia di Claudio, quella ferita si fa luce.
E quel bambino, ucciso e dimenticato, torna a vivere nel cuore di chi ascolta.
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