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Il collaboratore di giustizia riferisce in aula che Pietro Riggio gli chiese una mano per cacciare latitanti per conto dei servizi

Procede a passo spedito il processo di Caltanissetta contro i generali dei carabinieri (oggi in pensione) Angiolo Pellegrini (difeso dagli avvocati Oriana Limuti e Rocco Licastro) e Alberto Tersigni (difeso dagli avvocati Giuseppe Piazza e Basilio Milio), accusati di aver intralciato i pm che stavano cercando riscontri alle dichiarazioni del pentito Pietro Riggio sulla strage di Capaci. Davanti alla corte d’Assise di Caltanissetta (presidente Francesco D’Arrigo) è stato sentito il collaboratore di giustizia di Gela Carmelo Barbieri. Il teste, sentito dalle parti, ha raccontato dei colloqui avuti con il generale Angiolo Pellegrini. Colloqui avvenuti quando era detenuto al carcere di Teramo e anche dopo la scarcerazione datata aprile 2002, quando aveva obbligo di soggiorno a Marina Romea (Ravenna) oltre all’obbligo di firma. In quell'occasione - secondo il pentito - c'era anche Alberto Tersigni, anch’egli imputato insieme a Giovanni Peluso, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. “L’appuntamento fu concordato da Pietro Riggio e si svolse presso il bar di fronte alla stazione ferroviaria di Marina di Romea. Pellegrini era accompagnato da altri, se non ricordo male era un maggiore, il colonnello Tersigni ch se non ricordo male era venuto pure a Teramo con il colonnello Pellegrini”. Quindi il pm Pasquale Pacifico ha spostato il focus su vecchie dichiarazioni del teste in merito ai rapporti intrattenuti con soggetti appartenenti ai servizi di sicurezza, avendone anche fornito i numeri di telefono. Una circostanza avvenuta dopo i colloqui avuti coi due colonnelli.
"Dopo le visite ricevute al carcere di Teramo e a Marina di Romea mi chiamarono dal commissariato di Gela e mi dissero che dovevo ricevere una visita dei loro colleghi", ha spiegato. A Marina Romea Barbieri avrebbe incontrato due esponenti dei servizi segreti. Gli incontri, ha spiegato il pentito, sarebbero avvenuti sempre nei pressi della stazione ferroviaria. Uno di loro - ha raccontato - “si chiamava o si faceva chiamare ‘Gianni’ e l'ho incontrato anche a Gela. Ricordo che l'altra persona dei servizi si chiamava ‘Salvatore’”. A Marina Romea Barbieri incontrò anche Pietro Riggio, che conosceva bene. Lo stesso avvenne pure a casa sua, a Gela, dove il teste sostava per un periodo di convalescenza successiva a un intervento chirurgico avvenuto all’ospedale di Catania: "Pietro Riggio veniva a trovarmi spesso a Marina di Romea. Poi venne a trovarmi a casa a Gela". In una di queste visite Riggio gli avanzò “una proposta che a me in quel momento suonò un po' strana”. “Riggio mi chiese se ero disponibile a collaborare con lui per la cattura dei latitanti”. “Ma ne parlammo… perché Riggio venne arrestato a causa mia”. “Mi disse che lui in quel periodo era in contatto con persone delle istituzioni, si era messo a disposizione per la cattura di latitanti… era coinvolto in queste situazioni... aveva preso questo impegno. Mi chiese se potevo dargli una mano per aiutarlo perché lui ne avrebbe tratto benefici sia dal punto di vista economico che lavorativo perché oltre ad aiutarlo a superare questa disavventura giudiziaria lo avrebbero riammesso a lavorare presso la polizia giudiziaria”. Uno dei latitanti da catturare, ha ricordato Barbieri, era il boss di Gela Daniele Manuello che il teste conosceva molto bene. Riggio, secondo Barbieri, in uno di questi incontri gli portò addirittura un sacchetto contenente “un telefono satellitare e una cintura contenente una microspia”, apparecchi necessari per il compito richiestogli. “In quel momento ebbi un momento di sbigottimento gli dissi ‘Piero fammi capire come mai…’ Mi disse che lui aveva fatto una promessa a questa persona per aiutarli… E io gli risposi: ‘Ma ti fidi di queste persone? Lui mi disse che sono persone che conosco bene e che ha conosciuto nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere… sono persone dei servizi, infiltrate in determinate situazioni”.
Tuttavia Berbieri rifiutò comunque la proposta. “Risposi che durante quella mia prima vita - ha detto Barbieri - io non avrei mai tradito Emmanuello perché scese in campo”. “In quel periodo volevano attentare alla mia vita. Visto che erano persone adiacenti alla nostra consorteria. Emmanuello chiamò Rosario Trubia (poi diventato anche lui collaboratore di giustizia) e li fece calmare". In pratica lo salvò in passato e lo stesso, ha poi dichiarato, avrebbe poi fatto Barbieri nei confronti di Riggio quando quest’ultimo gli confessò di aver saputo che qualcuno voleva eliminarlo. A fine udienza, rispondendo alle domande dei difensori il collaboratore di giustizia Barbieri ha detto che "il colonnello Pellegrini mi parlò dell'arresto dell'allora latitante Bernardo Provenzano". Le lettere che il gelese ha ricevuto dal cugino Pietro Riggio sono state tutte strappate "perché io non facevo come Riggio e non le conservavo". L’udienza è stata rinviata al 10 giugno. 

Foto © Shobha

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