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Lo ha deciso il tribunale di sorveglianza di Roma dopo l’allarme della Dna sulla sua pericolosità attuale

Il tribunale di sorveglianza di Roma ha confermato il regime del 41 bis per Giovanni Riina, figlio secondogenito di Totò Riina, condannato all’ergastolo per due omicidi. La decisione è arrivata dopo che la Suprema Corte aveva accolto il ricorso della difesa, che ne contestava il rinnovo per “assenza di novità” nella valutazione della pericolosità. Tuttavia, il regime di “carcere duro” continua a essere ritenuto necessario per il figlio del capo dei capi, morto in carcere la notte del 17 novembre 2017. Anche la Dna, già qualche mese fa, aveva messo in guardia da una scelta che avrebbe potuto favorire “gli attuali mandamenti mafiosi palermitani”. Per la Direzione nazionale antimafia, Riina è da “ritenersi persona estremamente pericolosa, la cui capacità di mantenere collegamenti con l’associazione criminale non è certamente venuta meno”. Lo ha ribadito, durante l’udienza decisiva di Roma, anche la sostituta procuratrice della Dna, Franca Imbergamo, la quale - come si apprende da Repubblica - ha spiegato che dalle recenti indagini sarebbe emerso come Giovanni Riina mantenga ancora il ruolo diretto del padre. Dunque, per i magistrati, il potere mafioso della famiglia Riina non si è dissolto con la scomparsa del boss corleonese, ma continua a manifestarsi in diverse forme, anche attraverso la gestione dei beni illeciti accumulati negli anni. I togati hanno ricordato, infatti, come “diversi appartenenti all’associazione mafiosa continuano a gestire l’ingente patrimonio illecito accumulatosi nel corso degli anni e provvedono a far pervenire alla moglie di Salvatore Riina, Ninetta Bagarella, in parte attraverso Giovanni e Giuseppe Salvatore Riina, i proventi che l’associazione mafiosa percepisce sul territorio”.
Ad ogni modo, per comprendere davvero il peso di un nome come “Riina” nel panorama mafioso siciliano, occorre tornare a chi Cosa nostra l’ha vissuta dall’interno e poi ha deciso di voltarle le spalle. Gaspare Mutolo, ad esempio: ex uomo d’onore, poi collaboratore di giustizia. Mutolo ha più volte raccontato la freddezza, la doppiezza e la capacità di Riina di mascherarsi dietro una finta umiltà. Una dote che, secondo alcuni, potrebbe aver trasmesso anche a suo figlio Giovanni. Del resto, è stato lo stesso Mutolo a mettere in guardia: la morte di Totò Riina prima, e quella di Matteo Messina Denaro poi, non rappresentano affatto la fine di Cosa nostra, ma l’ennesima fase di adattamento per sopravvivere e continuare a prosperare. “La mafia - ha spiegato Mutolo in un’intervista rilasciata nel novembre 2017, poche ore dopo la morte del capo dei capi - verrà sconfitta nel momento in cui lo Stato vorrà davvero sconfiggerla. Lo Stato ha reagito quando è stato colpito dalla furia delle stragi, quando hanno ammazzato Falcone, Borsellino e, prima ancora, altri magistrati e uomini delle forze dell’ordine. Lì lo Stato ha fatto qualcosa per combattere la mafia, con leggi dure come il 41 bis o la legge sui pentiti. Ma serve molto di più. Devono essere tagliati certi fili”.

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