Uccidere Luigi Ilardo, ordine dello Stato-Mafia.
L’ex boss di Cosa nostra nissena e poi confidente del colonnello dei Carabinieri del Ros (oggi generale in quiescenza) Michele Riccio venne ucciso il 10 maggio 1996 prima di divenire definitivamente collaboratore di giustizia.
Dopo anni sono stati condannati sempre i soliti mafiosi, sia nella veste di mandanti che di esecutori: Giuseppe Madonia, Vincenzo Santapaola (mandanti), Maurizio Zuccaro (organizzatore) e Orazio Benedetto Cocimano (esecutore materiale). Condanne, ricordiamo, passate in via definitiva ad ottobre 2020.
Ma abbiamo in mano tutta la verità? Certamente no.
Una eventuale collaborazione con la giustizia di Ilardo avrebbe potuto provocare un vero terremoto all'interno dei più alti gangli del potere.
La posta era veramente troppo alta, per alcuni.
Sono troppi gli interrogativi inevasi dietro ad una storia che si intreccia inevitabilmente con la latitanza del boss corleonese Bernardo Provenzano e la Trattativa Stato-mafia.
Il 31 ottobre del 1995, in un casolare di campagna, vi erano Provenzano, Salvatore Ferro, Lorenzo Vaccaro, Giovanni Napoli e Nicola La Barbera. L'infiltrato, dopo il summit si trova faccia a faccia con Don Binu, si aspettò un blitz, avvertì lui i carabinieri, li portò lui da Provenzano; ma non accadde nulla. Quel giorno erano solo in quattro a sapere cosa stava accadendo: il tenente colonnello Michele Riccio (che ha gestito l'infiltrazione di Luigi Ilardo), l'allora colonnello Mario Mori, l'allora maggiore Mauro Obinu e Sergio De Caprio, alias 'Ultimo'.
Quell'ottobre del 1995 i militari si limiteranno ad osservare perché impossibilitati ad intervenire, così dichiarò l'ufficiale Mauro Obinu a processo (il militare venne poi assolto assieme a Mario Mori), data la presenza di pecore, pastori e mucche.
Ma Provenzano non poteva essere catturato perché, dopo la fase iniziale della Trattativa (che ci fu! giacché ne dicano i negazionisti) in cui l’interlocutore mafioso era Riina, aveva poi assunto lui il ruolo di referente in quanto esponente di una Cosa nostra sempre mafiosa e omicida ma non stragista. Una Cosa nostra che non voleva la guerra ma che sarebbe tornata a ‘convivere’ con lo Stato.
Del resto grazie al suo contributo da infiltrato aveva permesso già la cattura di svariati boss e a Riccio aveva anche parlato dei mandanti esterni delle stragi del '92 e del '93, dei rapporti deviati con la Massoneria ed altre entità esterne a Cosa nostra che il confidente aveva avuto modo di conoscere. Di tutto questo avrebbe parlato ai magistrati una volta entrato nel programma di protezione.
A raccontare le modalità dell'omicidio diversi collaboratori di giustizia. Al delitto avrebbero preso parte anche Maurizio Signorino e Pietro Giuffrida, entrambi poi deceduti. Per lo stesso delitto il 19 maggio del 2014 il Gup di Catania, Sebastiano Fabio Di Giacomo Barbagallo, ha condannato, col rito abbreviato, a 13 anni e quattro mesi di reclusione, il boss 'pentito' Santo La Causa, che aveva organizzato dei sopralluoghi per compiere l'agguato, ma che fu poi bypassato nella commissione del delitto a causa di un'improvvisa accelerazione dovuta proprio al sospetto che Ilardo avesse l'intenzione di collaborare con la giustizia.
Ilardo non solo ha portato alla possibilità di arrestare Provenzano il 31 ottobre 1995, ma ha anche parlato per primo di una riunione che si tenne alla fine degli anni Ottanta a Palermo e che sanciva l'ingresso ufficiale tra Cosa nostra e la massoneria. Inoltre racconta dei rapporti con soggetti come Gianni Chisena, soggetto collegato con ambienti di servizi deviati, con l'estrema destra e con Luigi Savona, altro personaggio depositario di segreti di un certo ambito.
Un altro argomento chiave è l'accelerazione del delitto. I processi fin qui celebrati hanno stabilito in maniera chiara la responsabilità di Cosa nostra nel delitto ma quel che ad oggi resta avvolto nel mistero è come cosa nostra catanese venne a sapere della volontà di Ilardo di collaborare. In questi anni è emerso dalle dichiarazioni dell'ex boss di Caccamo, oggi pentito, Antonino Giuffrè, che vi fu una fuga di notizie da ambienti giudiziari nisseni, ed anche il colonnello Michele Riccio confermò il dato dopo alcuni colloqui avuti con un altro ufficiale dell'Arma. Una “soffiata istituzionale”, come sancito dalla sentenza con cui sono stati condannati i mandanti e gli esecutori mafiosi del suo omicidio.
Qualche giorno prima di morire, Ilardo, aveva anticipato che avrebbe fornito all’autorità giudiziaria scottanti rivelazioni sulla strage di Pizzolungo, sul caso Agostino-Castelluccio, sui mandanti occulti delle stragi del 1992-1993, che riteneva essere connesse agli ambienti della destra eversiva e dei servizi deviati che negli anni ’70 avevano posto in essere la “strategia della tensione”, e sulle scelte politiche della mafia palermitana, che nel 1994 aveva trovato in Forza Italia il progetto politico su cui puntare dopo il maxi scandalo di Tangentopoli e il sostanziale “azzeramento” dei suoi ex referenti politici.
"Gino Ilardo - aveva detto il sostituto procuratore palermitano Nino Di Matteo durante la requisitoria di primo grado del processo Trattativa Stato-Mafia - nello stesso momento in cui ricopriva all'interno di Cosa nostra cariche apicali - la reggenza delle Province mafiose di Caltanissetta ed Enna - svelava in diretta, al colonnello Riccio, gli assetti, i segreti antichi, le dinamiche in divenire di Cosa Nostra e - per favore non dimenticatelo mai - non soltanto con riferimento alle vicende di ordinaria criminalità mafiosa, ma anche in riferimento a rapporti più alti e più inconfessabili di Cosa nostra con la politica, con la massoneria, con soggetti deviati e devianti dei servizi di sicurezza".
"Dopo tanti anni in cui ho seguito fin dalla fase dell'indagine anche questa vicenda, non esito a definire, perché ne sono convinto, quella di Ilardo come una storia unica, più unica che rara certamente, nel panorama delle vicende di mafia e antimafia nel nostro Paese. Una vicenda incredibile, una vicenda eccezionale, una vicenda vergognosa, una vicenda tragica nell'epilogo che ha avuto, intanto nei confronti - non dimentichiamolo mai - del suo protagonista principale, Gino Ilardo, ucciso a Catania il 10 maggio 1996, otto giorni dopo avere incontrato tre magistrati delle Procure distrettuali di Palermo e Caltanissetta, il colonnello Mori e altri ufficiali del Ros presso la sede centrale del Ros a Roma, e cinque giorni prima rispetto al momento in cui - la data era già stata fissata - Ilardo con il suo primo interrogatorio formale innanzi all'autorità giudiziaria, fissato per il 15 maggio, avrebbe assunto formalmente la veste di collaboratore di giustizia e sarebbe stato sottoposto al programma di protezione riservato ai collaboratori di giustizia. Cosa Nostra sostanzialmente, uccidendo Ilardo, ha dimostrato di potere stoppare sul nascere una collaborazione di altissimo livello che sarebbe stata devastante per l'organizzazione e per tutti coloro i quali colludevano con l'organizzazione mafiosa”.
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