I cultori della penna, dell’inchiostro, della tastiera che batte rumorosamente incidendo il foglio, hanno in comune non solo una storia da raccontare, ma un amore che nasce dallo spirito libero nella ricerca della verità, dei filosofi senza discepoli, ma che come Socrate spesso finiscono vittime della loro stessa saggezza e conoscenza.
Quella curiosità che ti spinge oltre il velo delle apparenze e dei falsi perbenismi, quel meccanismo che non quadra e che troppo silenzio lo ricopre.
Molti i giornalisti che di queste fattezze sono morti e sacrificati per un bene superiore, come Giancarlo Siani, Giovanni Spampinato, ed altri ancora.
Ma in particolare ricordiamo a 46 anni dal suo delitto Mario Francese, assassinato il 26 gennaio del 1979 dalla mafia, dalla criminalità organizzata, dagli intrecci di legami tra colletti bianchi, imprenditori e criminali.
Mario Francese nacque a Siracusa il 6 febbraio del 1925, terzo di quattro figli. Cominciò così a lavorare in qualità di telescriventista dell'ANSA. Il suo sogno di giornalista venne alla luce quando iniziò a collaborare con il quotidiano "La Sicilia" di Catania.
Essendo precario cercò un lavoro che gli permettesse di avere uno stipendio sicuro, ed entrò alla Regione come "cottimista" il 1° gennaio 1957, divenendo successivamente capo dell'ufficio stampa all'assessorato ai Lavori pubblici, assunto in modo definitivo nell'ottobre del 1958.
Nel frattempo intraprese una collaborazione con "Il Giornale di Sicilia" di Palermo.
Il 30 ottobre dello stesso anno Mario Francese si sposò con Maria Sagona, da cui ebbe quattro figli maschi. Nel 1968 si dimise dalla Regione, lasciando il posto fisso, per lavorare a pieno nel Giornale di Sicilia come cronista giudiziario, entrando in contatto con gli scottanti temi del fenomeno mafioso.
Divenuto giornalista professionista si occupò della strage di Ciaculli, del processo ai corleonesi del 1969 a Bari, dell'omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo.
Fu persino l'unico giornalista a intervistare la moglie di Totò Riina, Ninetta Bagarella.
Intuì per primo anche, cosa stesse accadendo all'interno di Cosa nostra negli anni Settanta, raccontando l'ascesa dei corleonesi Riina e Provenzano.
Francese scavò anche sulla pioggia di miliardi giunta dal Governo per la ricostruzione post terremoto del Belice che andava a toccare ben tre province: Trapani, Palermo e Agrigento. Scoprì che alla base del forte scontro interno mafioso c’erano soprattutto i soldi stanziati per la costruzione della diga Garcia.
E nel settembre del '77 arrivò a pubblicare un'inchiesta in sei puntate dove descriveva tutta la rete di collusioni, corruzioni ed interessi che si erano sviluppati per la realizzazione della diga. E fu in quella occasione che Mario Francese spiegò che dietro la sigla di una misteriosa società, la Risa, si nascondeva Riina, a quell'epoca considerato quasi come un fantasma, pienamente coinvolto nella gestione dei subappalti relativi alla costruzione della diga stessa.
E proprio su quel rapporto tra mafia e politica, inserito nel contesto della gestione degli appalti, insisteva con determinazione. Quando venne assassinato, Francese stava attendendo la pubblicazione di un suo dossier su mafia e appalti, pubblicato postumo come supplemento al Giornale di Sicilia.
Un ritardo di cui il giornalista si lamentò con diversi colleghi, ritenendo che “fosse uscito dalla redazione”. Francese venne ucciso, davanti casa, da Leoluca Bagarella mentre stava rientrando dopo una dura giornata di lavoro. Era la sera del 26 gennaio 1979. Da lì a poco avrebbe compiuto 54 anni. Fu ucciso perché come si legge nella motivazione della sentenza della Cassazione che condannò esecutori e mandanti di quel delitto, Mario Francese possedeva “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità delle linee evolutive di Cosa Nostra”.
Abile ad anticipare gli inquirenti nell'individuazione di nuove piste investigative, rappresentava un pericolo per la mafia, in quanto era capace di individuarne il programma criminale. Il delitto di Mario Francese aprì una serie di omicidi mafiosi a ripetizione, dal segretario provinciale della Dc, Reina, al capo della squadra mobile Boris Giuliano, fino ad arrivare al giudice Cesare Terranova ed al presidente della Regione Piersanti Mattarella. L'omicidio del giornalista cadde nel dimenticatoio, tanto che l'inchiesta venne archiviata. Ci vollero anni per riaprirla su richiesta della famiglia. Il processo si è svolto con rito abbreviato, concludendosi nell'aprile del 2001, con la condanna a trent'anni di Totò Riina, Leoluca Bagarella (esecutore materiale), Raffaele Ganci, Francesco Madonia, Michele Greco e Bernardo Provenzano.
E' stato invece assolto Giuseppe Madonia, accusato di essere stato il killer insieme a Bagarella. Poi, nel processo bis, con rito ordinario, l'imputato Bernardo Provenzano è stato condannato all'ergastolo. Quindi, nel 2002 in appello è stata confermata la sentenza di primo grado. Anche in Cassazione resse l'impianto accusatorio, ma vennero assolti tre boss "per non aver commesso il fatto": Pippo Calò, Antonino Geraci e Giuseppe Farinella.
Non è stato semplice giungere ad una verità, seppur parziale, sull'omicidio e sui motivi che portarono alla morte del cronista. Sullo sfondo resta infatti l'amarezza per un silenzio durato un ventennio. Nel 1996 è stato istituito un premio alla sua memoria, il Premio Mario Francese.
Nello stesso luogo in cui i killer gli spararono è stato intitolato al cronista uno spazio verde, “una aiuola-spartitraffico” ed è stata istituita una lapide a ricordo del “coraggio e l’amore per la verità” del cronista. Lo Stato ha onorato il sacrificio della vittima, con il riconoscimento concesso a favore dei suoi familiari, costituitisi parte civile nel processo, dal Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99.
Una storia che lascia il segno negli annali dell’Italia, una morte sacrificata per il bene comune, un monito a reagire di fronte all’inerzia della gente, che preferisce la comodità e il favore personale piuttosto che denunciare l’ingiustizia e l'illegalità.
A seguire le stesse tracce è stato il figlio Giuseppe, colpito dal vuoto del padre e del caso irrisolto combatté con tutte le forze per riprenderlo in mano e far luce sulla verità. Ma il dolore, il trauma, le preoccupazioni hanno affossato la sua mente e il suo cuore, portandolo al suicidio nella notte tra il 2 e il 3 settembre 2002 nella sua abitazione. Gli stessi occhi con i quali Giuseppe cercava la verità; gli stessi con i quali voleva trovare giustizia per suo padre e capire perché era stato ucciso. Gli stessi occhi che gli fecero capire quanto scomodo potesse diventare anche il mestiere di un giornalista, se quest'ultimo veniva svolto con libertà.
"Ho scritto e scritto di mafia. Come mio padre, anche se non faccio il suo mestiere. Allora mi domando e vi domando: perché lo faccio? Forse soltanto per sete di verità. Verità ancora sconosciute, verità da chi per oltre vent'anni è stato arso dalla sete di giustizia. Così qualche inchiesta l'ho fatta anche io, in periodici poco conosciuti ma in cui ero libero di scrivere ciò che volevo. Ho riletto molte verità ufficiali ma ai miei occhi, occhi da ingenuo o forse solo di un povero stupido, sono verità che non convincono. Questa è la terra dei misteri. A volte la verità mi sembra che sia come un immenso puzzle, ogni tanto incastoni un pezzo e cerchi l'altro per andare avanti. Ma il puzzle è infinito e, nonostante tutto l'impegno possibile, non sarà mai completato”.
Sono le domande di un ragazzo, di un figlio, che sostanzialmente rivolge ad ognuno di noi, perché vivere nella menzogna?
Denunciare il male è compito etico di ognuno, vivendo secondo giustizia.
Foto © Archivio Letizia Battaglia
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