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La corte di Cassazione, con due distinti provvedimenti, ha bocciato i ricorsi di Francesco Tagliavia, boss di Brancaccio detenuto al 41bis e condannato per la strage ai Georgofili, rispetto a due lettere, sequestrate, che aveva inviato alla moglie dal carcere. In una raccontava di un sogno, indicando dei luoghi precisi, e in un'altra faceva riferimento a dei "ricci" e ad una "cernia". Entrambe le missive erano state sequestrate dal Tribunale di Sorveglianza di Torino perché il loro contenuto è stato ritenuto dai giudici "criptico" e pericoloso, ovvero un tentativo del mafioso di farsi sentire oltre le sbarre e oltre il carcere "duro". Quindi il capo mafia, recluso al 41bis, ha fatto ricorso a febbraio 2024 per la censura ma i supremi giudici l’hanno ritenuto inammissibile. Le due ordinanze, riporta palermotoday.it, sono state emesse dalla settima sez. di Cassazione presieduta da Monica Boni, che ha condannato il detenuto a versare in tutto 6 mila euro alla Cassa delle ammende. Il contenuto esatto delle due lettere è sconosciuto proprio per evitare che venga diffuso all'esterno ma nei vari provvedimenti si fanno soltanto degli accenni molto generici. Ed è una delle cose contestate da Tagliavia nei suoi ricorsi, sostenendo, spiega palermotoday.it, che proprio per l'assenza di dettagli per lui sarebbe diventato impossibile difendersi e dimostrare che non ci sarebbe stato alcun messaggio criptico in quei messaggi alla moglie. Nella prima lettera, come si legge nella decisione della Cassazione depositata nelle scorse settimane, "vi era il racconto da parte dell'uomo di un sogno con l'indicazione di luoghi, racconto che poteva essere un modo per veicolare all'esterno messaggi criptici, indirizzati al sodalizio di appartenenza". Tagliavia nel suo ricorso sosteneva appunto che nel provvedimento erano stati omessi i dettagli del sogno e che "la stringata motivazione ostava a qualunque possibilità di difesa". I giudici hanno però replicato spiegando che la mancata trascrizione della lettera ha il fine di "evitare di disvelare proprio attraverso la motivazione del provvedimento giurisdizionale il contenuto della missiva censurata, soprattutto perché nel caso di specie si tratta di corrispondenza del detenuto, in uscita, dunque". Nell’altra missiva, invece, Tagliavia parlava di animali, “cernia" e "ricci", che sono stati "ritenuti in realtà termini criptici per alludere a tutt'altro". Il boss nel suo ricorso ha sottolineato che "il trattenimento della corrispondenza è finalizzato ad evitare l'effettiva trasmissione di contenuti pericolosi e non quella di limitare sine die un diritto costituzionalmente garantito. E che la decisione del tribunale di Sorveglianza di sequestrare il documento non sarebbe stata motivata correttamente. Una tesi rigettata dalla Cassazione che ha motivato così: "Nel caso in esame l'obbligo motivazionale è più sfumato proprio per la ricordata necessità di evitare che attraverso il provvedimento giurisdizionale venga raggiunto il risultato evitato con la censura della corrispondenza, cioè il completo disvelamento del contenuto della missiva illecita".

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