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Gli investigatori: “Cosa nostra agrigentina è tutt'oggi pienamente operante, dotata di ingenti disponibilità economiche e di numerose armi”

Operazione antimafia dei carabinieri tra le province di Agrigento e Caltanissetta. I militari dell’Arma hanno ricostruito le attivitità criminali delle famiglie mafiose di Porto Empedocle e Agrigento/Villaseta. Gli indagati sono complessivamente 48, alcuni dei quali già detenuti per altri motivi. Per 36 è stata disposta la custodia cautelare in carcere, mentre per altri 15 i domiciliari. Nel blitz sono stati impegnati i carabinieri dei due Comandi provinciali. Gli arresti sono stati eseguiti ad Agrigento, Favara, Canicattì e Porto Empedocle, oltre che nella cittadina nissena di Gela. L'indagine è coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo e l'ordinanza nei confronti dei 48 è stata emessa dal gip del tribunale del capoluogo siciliano. Le accuse principali, a vario titolo, sono di associazione mafiosa e traffico di droga. Il blitz di ieri nasce dalle indagini del Nucleo investigativo del Reparto operativo dei carabinieri di Agrigento, svolte dal dicembre del 2021 a oggi. I militari e i magistrati della Dda di Palermo hanno ricostruito l'organigramma e le attività criminali delle due famiglie mafiose. A Porto Empedocle il capo sarebbe stato Fabrizio Messina, di 49 anni, ad Agrigento/Villaseta, invece, la famiglia sarebbe stata capeggiata dal 39enne Pietro Capraro. Estorsioni, armi, incendi e danneggiamenti sono gli altri reati contestati dagli inquirenti, secondo i quali Cosa nostra agrigentina era pienamente operativa nonostante i colpi inferti negli anni dalle forze dell'ordine. Secondo gli investigatori la mafia di Agrigento è ancora capace di "controllare le dinamiche criminali del territorio". “Pur essendo stata sensibilmente intaccata nel corso degli anni da varie operazioni - spiegano i carabinieri del Comando provinciale -, Cosa nostra agrigentina è tutt'oggi pienamente operante, dotata di ingenti disponibilità economiche e di numerose armi, per di più in un contesto caratterizzato da una instabilità degli equilibri mafiosi faticosamente raggiunti nel tempo". L'indagine ha fatto emergere inoltre "i sempre più pericolosi, persistenti e documentati collegamenti tra gli associati ristretti all'interno del circuito carcerario e gli ambienti criminali esterni". Scoperto, infatti, un "sistematico" utilizzo di cellulari apparecchi da parte degli uomini d'onore, o di soggetti contigui ai clan, durante i rispettivi periodi di detenzione: una circostanza che lascia "inalterate" le capacità di comando e consente a boss e affiliati "di mantenere i contatti con i correi in libertà e di impartire ordini e direttive". Non solo. Gli inquirenti hanno segnalato un’improvvisa e allarmante recrudescenza di atti intimidatori" e il rischio di "una guerra tra clan". L'aumento dei gravi atti intimidatori, realizzati anche mediante l'utilizzo di armi, probabilmente sarebbe dovuto sia all'imposizione del rispetto della ''competenza'' territoriale sia ai tentativi di osteggiare l'egemonia del gruppo mafioso allo stato al vertice della famiglia di Agrigento-Villaseta. Da qui, il concreto rischio che potesse verificarsi un crescendo di azioni intimidatorie che avrebbe potuto portare a quella che gli stessi indagati definiscono una vera e propria ''guerra'' di mafia, alla quale lo scorso mese di dicembre è stato posto un freno con l'esecuzione di un provvedimento di fermo di indiziati di delitto emesso dalla Dda di Palermo e che ha portato in carcere 24 persone. Nei giorni successivi, numerose perquisizioni hanno portato al sequestro di un arsenale composto da numerose armi e munizioni anche da guerra, tra cui una bomba a mano e una pistola mitragliatrice calibro 9, nonché la somma in contanti di 80mila euro.

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