Il dodicenne fu ucciso da Cosa nostra l’11 gennaio 1996: strangolato e sciolto nell’acido dopo 799 giorni di prigionia
La vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo rimane uno dei capitoli più cupi e atroci della storia di Cosa nostra, smascherando la parte più brutale e disumana della mafia. Giuseppe, un bambino di soli dodici anni, fu rapito il 23 novembre 1993 mentre si trovava al maneggio di Villabate, luogo che frequentava per la sua passione per l’equitazione. I suoi rapitori, spacciandosi per agenti di polizia, lo convinsero con l'inganno che lo avrebbero portato a riunirsi con il padre, Mario Santo Di Matteo, un ex boss del mandamento di Altofonte che aveva deciso di collaborare con la giustizia. Fu proprio la scelta del padre di collaborare con la giustizia a scatenare la ferocia di Cosa nostra, che intendeva utilizzare il piccolo Giuseppe come arma di ricatto per costringere l’ex boss al silenzio. L’ex boss, infatti, aveva iniziato a fornire dettagli cruciali sugli affari della mafia, inclusi particolari legati alla strage di Capaci, in cui perse la vita il giudice Giovanni Falcone. L’ordine di rapire Giuseppe arrivò direttamente dai vertici di Cosa nostra. Dopo il rapimento, il bambino fu trasferito in diverse località tra il Trapanese e l’Agrigentino, costretto a vivere in condizioni di estremo isolamento e degrado. Nei giorni successivi, la famiglia Di Matteo ricevette messaggi inquietanti. Uno dei primi biglietti riportava la frase: “Tappaci la bocca” e includeva fotografie del bambino, un chiaro segnale che il rapimento era legato alla collaborazione del padre con la giustizia. I messaggi continuarono, alternando intimidazioni e richieste implicite di silenzio. Tuttavia, Santino Di Matteo, sebbene devastato, decise di non cedere al ricatto, continuando a collaborare con le autorità. Purtroppo, dopo 799 giorni di interminabile prigionia, l’11 gennaio 1996 arrivò la tragica sentenza: Giovanni Brusca, l’ideatore del piano crudele e calcolato nei minimi dettagli, avallato da Matteo Messina Denaro, all’epoca figura di spicco di Cosa nostra, ordinò di uccidere il piccolo Giuseppe. Il bambino fu strangolato e poi sciolto nell’acido. La decisione, presa da Brusca dopo aver appreso di un’ulteriore condanna a suo carico, sancì la crudeltà estrema della mafia, lasciando un segno indelebile nell’opinione pubblica. Anni dopo, grazie alle rivelazioni di collaboratori di giustizia come Gaspare Spatuzza, emersero dettagli fondamentali che permisero di portare a processo i responsabili. Nel 2012, Messina Denaro, Brusca e altri mandanti e partecipanti al rapimento e all’omicidio furono condannati all’ergastolo. Le condanne vennero confermate in appello nel 2013.
Oggi, la storia di Giuseppe Di Matteo resta un monito potente, anche se non per tutti. È una vicenda che mostra quanto la mafia possa essere spietata. Per questo, la scarcerazione di diversi boss mafiosi dovrebbe destare grande turbamento e legittime preoccupazioni, che superano la semplice percezione pubblica: si tratta della sicurezza dello Stato, della tutela della società civile e del rischio di una nuova stagione di potere criminale. Brusca mantenne il controllo mafioso fino alla sua cattura definitiva, mentre Messina Denaro, con una latitanza durata tre decenni, ha dimostrato come i boss possano orchestrare attività criminali attraverso reti di fiducia. La ritrovata libertà di certi personaggi potrebbe restituire loro la capacità di agire in maniera spietata, ricostruendo, forse meglio di prima, le proprie reti di potere. Uno scenario che rischia di riportare il Paese a un tragico passato, in cui, proprio come nella vicenda del piccolo Di Matteo, l’intimidazione potrebbe tornare a colpire collaboratori di giustizia, testimoni e persino magistrati.
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