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I giudici della Cassazione hanno depositato le motivazioni con cui hanno dichiarato “inammissibile” il ricorso contro la proroga per altri due anni del carcere duro

Filippo Graviano deve restare al 41bis per “mancanza di una reale dissociazione” da Cosa nostra e soprattutto per gli “accertati contatti con il clan di appartenenza”. Sono queste le motivazioni con cui la Cassazione ha (nuovamente) respinto, dichiarandolo “inammissibile”, il ricorso presentato dai legali del capo mafia di Brancaccio condannato all’ergastolo per le stragi del ’92-’93 oltre che per l’omicidio del sacerdote beato Padre Pino Puglisi. Detenuto in carcere dal 1994, il fratello del boss Giuseppe Graviano (entrambi figure elitarie di Cosa nostra) da diversi anni ha iniziato un percorso rieducativo, culminato nel 2021 con la decisione di dissociarsi da Cosa Nostra, ma senza collaborare con la giustizia.

Un tentativo, il suo, di aprire la cella utilizzando il “grimaldello” della sentenza della Corte Costituzionale che nell'ottobre 2019, su impulso della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, si era espressa sull'illegittimità costituzionale dell'articolo 4 bis, comma 1, dell'Ordinamento penitenziario sostenendo che per l'ergastolano, sia o meno mafioso, la collaborazione con la giustizia non è più una "conditio sine qua non" per ottenere eventuali benefici carcerari. Per Filippo Graviano il regime carcerario è stato esteso lo scorso 11 ottobre 2023 con decreto ministeriale, a cui il killer mafioso, assistito dall’avvocata Carla Archilei, ha presentato ricorso poi bocciato dal Tribunale di sorveglianza di Roma (9 maggio 2024). Decisione che si basa “sul presupposto del suo permanente inserimento nella cosca di appartenenza, tuttora attiva e retta da persone a lui vicine, e in cui egli ha ricoperto un ruolo apicale, della permanenza dei collegamenti con essa o del pericolo di un loro ripristino, e della mancanza di una reale dissociazione da tale contesto criminoso”.

Quindi il boss stragista si è rivolto alla Cassazione lamentando la “violazione di legge e vizio della motivazione”, ritenendo che il tribunale di sorveglianza ha “dedotto il suo ruolo apicale nell’associazione dalle condanne riportate, senza ricostruirle nel dettaglio e senza esaminarle alle luce del reclamo e delle memorie presentate, e per non avere tenuto conto del suo progresso trattamentale, della sua esplicita dissociazione pronunciata durante una udienza pubblica, della rivisitazione critica da lui compiuta, così violando le numerose pronunce della Corte EDU e della Corte Costituzionale”.

I legali di Graviano ritengono che il carcere duro “comporta la violazione dell’articolo 3 della Costituzione e delle molte pronunce della Corte EDU, circa la natura inumana della pena dell’ergastolo”. La Suprema corte però, lo scorso 10 ottobre, gli ha dato torto spiegando che il “ricorso è inammissibile”, in quanto è consentito impugnare la decisione del “41-bis, comma 2-sexies”, “solo per violazione di legge”, ma i giudici nelle loro motivazioni spiegano che nell’istanza presentata dai legali di Graviano ci sono “solo doglianze in fatto”, che si “oppone alla ricostruzione della storia criminale” del boss, e presenta “una diversa ricostruzione basata sulle sentenze assolutorie, sminuendo la rilevanza e la portata di quelle di contenuto contrario, e non si confronta con l’ordinanza impugnata nella parte in cui questa sottolinea gli accertati contatti con il clan di appartenenza, mantenuti attraverso alcuni familiari”.


Inoltre i supremi giudici ritengono inammissibile anche la parte in cui la difesa del boss “richiama alcune sentenze della Corte costituzionale e della CEDU relative alla pena dell’ergastolo e al regime penitenziario differenziato”, ma “senza indicare in quali parti l’ordinanza impugnata contrasti con esse, e senza ricordare che l’applicazione del regime differenziato motivata, come nel presente caso, dal mantenimento dei contatti con l’associazione criminosa di appartenenza o dal pericolo del loro ripristino”.

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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