25 settembre 1988: c’erano il giudice Antonino Saetta ed il figlio Stefano su quella macchina presa d’assalto a colpi di mitra mentre erano in viaggio verso casa, di ritorno da una giornata trascorsa a Canicattì.
Il magistrato che aveva ricoperto la carica di presidente della Corte d’Assise d’Appello tra il 1985 ed il 1986 a Caltanissetta e, successivamente, a Palermo fino alla sua esecuzione, si era occupato di processi di primo piano in merito alle organizzazioni criminali: a Caltanissetta aveva curato come presidente della corte d’assise la strage in cui morì il giudice Rocco Chinnici, ed i cui imputati erano i celebri Michele “Il Papa” e Salvatore “Il Senatore” Greco, considerati esponenti all’apice della mafia di allora. Il processo si concluse con un aggravamento delle pene e delle condanne rispetto al giudizio di primo grado.
A Palermo presiedette il processo relativo alla uccisione del capitano Emanuele Basile, che vedeva imputati i capi emergenti Giuseppe Puccio, Armando Bonanno, e Giuseppe Madonia.
Fu in questa occasione che la tradizione assolutoria nei confronti della mafia, sempre presente nei giudizi di secondo grado, venne calpestata: il processo che in primo grado si era concluso in una discussa e sorprendente assoluzione si era tramutato, in appello, in una condanna al massimo della pena per gli imputati.
Con Saetta una catena di impunità si era spezzata, per questo e per altri motivi, era considerato come un pericolo incombente per Cosa Nostra, che il 16 dicembre 1987 aveva assistito alla sentenza che concludeva il maxiprocesso di primo grado: 346 condannati, 114 assolti, 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione.
Effettivamente, contrariamente a quanto era avvenuto per il processo di primo grado, solo pochi magistrati erano disposti a presiedere il maxiprocesso in appello. Uno di questi era Antonino Saetta.
Una vicenda “incredibilmente dimenticata”, aveva sottolineato nel documentario "L'abbraccio" di Davide Lorenzano il magistrato Nino Di Matteo, oggi sostituto procuratore nazionale antimafia e già consigliere togato al Csm: eppure fu un passaggio cruciale dello scontro tra Stato e mafia. “Un messaggio all’intera categoria giudicante”, ha ricordato il magistrato palermitano che assieme al collega Gilberto Ganassi aveva condotto la riapertura delle indagini 5 anni dopo la prima archiviazione, fino a portare a processo il capo dei capi di Cosa Nostra, Totò Riina. “Il giudice Saetta fu avvicinato, fu oggetto di tentativi di intimidazione", aveva sottolineato Di Matteo. “Di lì a poco sarebbe stato chiamato a presiedere il maxiprocesso in Appello. Aveva dato prova di essere un giudice integerrimo, inavvicinabile, evidentemente, e questo era inaccettabile per l’organizzazione mafiosa”.
Il magistrato aveva anche ricordato il contesto sociale di quegli anni: “Siamo in un momento in cui Palermo è spaccata a metà: c’è una parte dell’opinione pubblica, purtroppo minoritaria, che crede nel lavoro dei giudici antimafia. E poi una Palermo diversa, quella che diffida, convinta che il maxiprocesso si sarebbe risolto in una bolla di sapone: quella dei giornalisti e degli intellettuali (o pseudo-tali) che accusano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino di essere politicizzati, di agire per interessi personali e ambizioni di fama e carriera, quella che si lamenta sul Giornale di Sicilia delle sirene delle macchine di scorta”.
Nel 1998 la sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta formulò la condanna dei boss mafiosi Totò Riina e Francesco Madonia, come mandanti dell’omicidio Saetta e Pietro Ribisi, come esecutore materiale.
A seguito della notizia dell’omicidio del giudice Saetta, Giovanni Falcone dichiarò apertamente: “È un’esecuzione decretata dai corleonesi, e non averlo ucciso a Palermo è solo il tentativo di sviare l’attenzione, per provare a far pensare a qualcosa di diverso tirando in ballo le cosche locali. Ma la decisione viene da lì, e secondo me ha anche a che fare sia con il processo Basile che con il maxi”.
Sarebbe stato lo stesso Falcone, giunto all’ufficio affari penali nel 1991, a rendere onore al magistrato, introducendo assieme a Martelli la regola della turnazione in Cassazione dei processi di mafia: il ruolo di giudice di legittimità al maxiprocesso passò dall’“ammazzasentenze” Carnevale ad Arnaldo Valente e tutte le condanne di primo grado furono, per i mafiosi, clamorosamente riconfermate.
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