Il coraggio e la dedizione del giudice nelle parole di Paolo Borsellino: “Un uomo che aveva la ‘religione del lavoro’”
Questo articolo, che riproponiamo ai nostri lettori, è stato scritto in data 29-07-2024.
“La mafia uccide Chinnici, capo dell'ufficio istruzione”; “Palermo come Beirut: ucciso il giudice Chinnici in un attentato”. Sono questi i titoli apparsi il 29 luglio di quarantuno anni fa, rispettivamente, sui quotidiani “La Stampa” e “La Repubblica”, in seguito alla morte del giudice Rocco Chinnici, ucciso a Palermo davanti alla sua abitazione da un’autobomba: una Fiat 127 imbottita con 75 chili di tritolo e azionata a distanza dal boss mafioso Antonino Madonia. Quel 29 luglio 1983, insieme a Chinnici, morirono anche due agenti della scorta, Mario Trapassi e Salvatore Bartolotta, e il portinaio Stefano Li Sacchi. Nonostante le ferite riportate, riuscì a sopravvivere l’autista del giudice Chinnici, Giovanni Paparcuri.
Nato a Misilmeri nel 1925, Rocco Chinnici è stato un magistrato di primo piano nella lotta contro la mafia. È stato il primo a intuire l’esistenza di un “terzo livello” nella struttura gerarchica della mafia, composto da soggetti occulti che operavano nell’ombra per accrescere il potere di Cosa Nostra. Sono state queste stesse intuizioni che lo hanno accompagnato, passo dopo passo, al giorno della sua morte. Chinnici, infatti, stava indagando sui legami tra mafia e politica, in particolare sui cugini Ignazio e Nino Salvo, figure chiave nel collegamento con la Democrazia Cristiana di Giulio Andreotti, ma anche sui mandanti e gli esecutori dei delitti di Piersanti Mattarella, Pio La Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, per i quali pensava ci fosse un'unica regia. Del resto, anche le indagini sulla morte del giudice Chinnici, condotte anche dal pm Nino Di Matteo, hanno rivelato una chiara convergenza di interessi mafiosi, politici e istituzionali dietro l’attentato.
Il punto di contatto tra mafia e politica
Durante il processo di primo grado, con l’accusa rappresentata da Anna Maria Palma e Antonino Di Matteo, è stato messo in evidenza come “l’uccisione del giudice Chinnici fu voluta dai cugini Nino e Ignazio Salvo, e ordinata dalla cupola mafiosa per le indagini che il magistrato conduceva sui collegamenti tra la mafia e i santuari politico-economici”. Così, il 14 aprile del 2000, dalla Corte d’assise di Caltanissetta arriva la condanna all’ergastolo per esecutori e mandanti, tra questi, anche Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Antonino Madonia. Condanne che saranno confermate in Cassazione nel novembre 2003.
© Davide de Bari
Della sentenza di primo grado del 2000, che ha confermato il ruolo dei cugini Salvo nell’omicidio del giudice Chinnici, Nino Di Matteo ne ha parlato all’interno del suo libro “Collusi” (edito da Rizzoli), scritto insieme al giornalista Salvo Palazzolo. “Le parole di Brusca (collaboratore di giustizia che ha indicato il coinvolgimento dei cugini Salvo nell’attentato, ndr) e i numerosi riscontri emersi nel processo non lasciano spazio a interpretazioni - scrive Di Matteo -. Questa volta, Cosa Nostra aveva agito su input di altri. A dare il via era stato un vero e proprio potentato economico-politico, costituito da soggetti la cui autorevolezza criminale derivava dall’inserimento in un circuito esterno all’organizzazione mafiosa. I cugini Salvo - ha precisato Di Matteo - avevano potuto chiedere e ottenere un omicidio eccellente di quel tipo proprio perché rappresentavano lo snodo più importante di contatto e penetrazione del potere politico nazionale”.
Le parole di Paolo Borsellino
Il contributo più significativo del giudice Rocco Chinnici è stato sicuramente il maxiprocesso: il primo grande processo contro la mafia, che ha riunito numerose indagini su altrettanti delitti all’interno di un’unica istruttoria. Tuttavia, Chinnici non si è limitato solo al lavoro giudiziario; era molto impegnato nella sensibilizzazione della società civile, scegliendo di parlare sempre più spesso anche nelle scuole per educare e sensibilizzare i giovani sui pericoli della mafia. D’altronde, la splendida personalità del giudice Chinnici traspare anche nella prefazione che Paolo Borsellino ha scritto per rendere omaggio al libro postumo “L’Illegalità Protetta”: una raccolta di scritti di Rocco Chinnici che evidenziano la sua visione pionieristica nella lotta alla mafia.
Nini Cassarà, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici © Franco Zecchin
“Ho riletto con intensa emozione questi brevi scritti di Rocco Chinnici, che mi hanno fatto ricordare altri suoi interventi pubblici e tante altre conversazioni quotidiane che avevo con lui, di cui purtroppo è rimasta traccia solo nella mia memoria ed in quella di coloro che ebbero la fortuna di ascoltarlo. Rocco fu assassinato nel luglio del 1983, agli inizi di questo decennio, quando ancora erano grandemente lacunose le concrete conoscenze sul fenomeno mafioso, che non era stato ancora visitato dall’interno, come poi fu possibile nella stagione dei ‘pentiti’. Eppure la sua capacità di analisi e le sue intuizioni gli avevano permesso già nel 1981 di formarsi una visione del fenomeno mafioso che non si discosta affatto da quella che oggi ne abbiamo, col supporto però di tanto rilevanti acquisizioni probatorie, passate al vaglio delle verifiche dibattimentali. Le dimensioni gigantesche della organizzazione, la sua estrema pericolosità, gli ingentissimi capitali gestiti, i collegamenti con le organizzazioni di oltreoceano e con quelle similari di altre regioni d’Italia, le peculiarità del rapporto mafia-politica, la droga ed i suoi effetti devastanti, l’inadeguatezza della legislazione: c’è già tutto in questi scritti di Chinnici, risalenti ad un periodo in cui scarse erano le generali conoscenze ed ancora profonda e radicata la disattenzione o, più pericolosa, la tentazione, sempre ricorrente, alla convivenza. Eppure, né generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso, spesso confinante con la collusione, scoraggiarono mai quest’uomo, che aveva, come una volta mi disse, la ‘religione del lavoro’”.
Foto di copertina © Franco Zecchin
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