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Tra emozioni e riflessioni, alla vigilia di via d’Amelio, il consueto incontro allo storico Reparto Scorte di Palermo organizzato dal SIAP

Familiari delle vittime di mafia, poliziotti in servizio e in pensione, agenti di scorta sopravvissuti alla furia di Cosa nostra, società civile, e molti, molti giovani. Tutti insieme ieri mattina si sono ritrovati, come ogni 18 luglio, davanti al leggendario Reparto Scorte della Caserma Lungaro di Palermo. L’ufficio dove gli agenti di polizia uccisi nella strage di Capaci e in quella di via D’Amelio si sono formati e dove non hanno fatto più ritorno. Lo stesso da cui, ancora oggi, tanti uomini e donne valorosi escono ogni mattina per prestare servizio di tutela. L’iniziativa, promossa dal SIAP (Sindacato Italiano Appartenenti Polizia) altro non è se non un momento di raccoglimento intimo, lontano da telecamere e passerelle istituzionali.
Un appuntamento annuale, quasi una tradizione, diventato da tempo occasione per tanti che hanno combattuto la mafia, e che continuano a combatterla, di rivedersi, raccontarsi e confrontarsi. Ma soprattutto chiedere verità e giustizia per tanti colleghi poliziotti “figli del popolo” (così li ha descritti ieri un agente di scorta in una straordinaria lettera) - e parenti morti ammazzati. Un momento genuino “che non si misura con l’orologio ma con i battiti del cuore”, come ha detto Salvatore Iuculano, dirigente sindacale del SIAP citando Grossman. “Noi ci ritroviamo qui ormai da tanti anni e lo facciamo guidati solo da uno spirito, quello che dopo tanti anni ancora fino alla fine non si è compiuto, cioè riuscire a dare verità e giustizia a chi ci ha preceduto e a chi non è con noi”, gli ha fatto eco Luigi Lombardo, segretario provinciale SIAP Palermo. A lui, come ogni anno, il compito di condurre questa iniziativa intrisa di emozioni e ricordi.
Gioie, dolori, nostalgie, frustrazioni, infatti, sgorgano come fiumi in piena dal petto pesante di tutti loro mentre in cerchio si preparano emotivamente ad un altro 19 luglio, anniversario della strage in cui, in via d’Amelio, il giudice Paolo Borsellino perse la vita assieme ai poliziotti di scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Alcuni dei loro parenti più stretti erano presenti stamani alla Lungaro, riparati dal sole, sotto gli storici alberi che proteggono l’ufficio Scorte.


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L’inarrestabile Salvatore Borsellino

Tra questi, il più atteso è Salvatore Borsellino che nonostante l’età e le difficili condizioni di salute, ha voluto ad ogni costo essere presente. Il fratello di Paolo Borsellino, come altri parenti delle vittime, descrive la Caserma Lungaro come “casa”. “Qui è il luogo da dove partivano quei ragazzi per andare a fare il loro dovere, il loro servizio”, ha ricordato. “I miei giorni di memoria finirebbero qui, il 18 luglio, perché qui mi sento veramente di ricordare quei ragazzi che hanno sacrificato la vita per mio fratello”. “Qui non ci sono autorità, non ci sono istituzioni, c’è soltanto il questore perché è il padrone di casa ed è grazie a lui che siamo qui”, ha precisato l’instancabile fondatore delle Agende Rosse. “Mancano quelle autorità, quelle istituzioni che trasformano questi giorni in una parata, in una passerella; quando invece ancora da loro - ha spiegato - aspettiamo quella verità e quella giustizia che ancora non ci hanno dato”. Quindi Borsellino ha ricordato il grande assente di questa mattina in Caserma, Vincenzo Agostino, il padre del poliziotto Nino Agostino (assassinato dalla mafia il 5 agosto 1989 insieme alla moglie Ida Castelluccio). Vincenzo è venuto a mancare lo scorso 21 aprile e la camera ardente si è tenuta proprio alla Lungaro. “Sento un vuoto, quello lasciato da Vincenzo Agostino”, ha detto Borsellino visibilmente emozionato. “Non è in mezzo a noi ma ci ha lasciato la sua forza e il suo ricordo”. “Anche lui se n’è andato senza giustizia e senza verità, avendo solo un barlume su quella verità che aspettava da anni e per cui non si è mai tagliato la barba dopo la morte di suo figlio. Io sono certo che me ne andrò come Vincenzo e come tanti altri, senza avere avuto questa verità”, ha aggiunto. “A me non importa se non dovessi esserci più perché l’importante è che ci siate tanti di voi”, ha detto con la voce rotta dal pianto e gli applausi di tutti presenti. “A noi non importa avere la verità nelle aule processuali - ha concluso - noi sappiamo chi siete (ha detto rivolgendosi a chi trattò con la mafia negli anni delle stragi, ndr) e continueremo a combattere affinchè questa verità e questa giustizia, che fino a oggi sono state negate, vengano finalmente alla luce”.


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Le testimonianze di Antonio Vullo e Luciano Traina

Un altro parente di un caduto nella strage di via d’Amelio è Luciano Traina, fratello di Claudio Traina, che rivolgendosi al questore di Palermo Vito Calvino, anche lui venuto per l’iniziativa, ha chiesto di ritornare come a 30 anni fa. “Mettiamocela tutta perché questo è quello che chiediamo. Chiediamo giustizia e verità. Sono stati arrestati i mafiosi, la manovalanza, ma dobbiamo puntare più alto chi erano i mandanti perché io ci soffro”. Luciano Traina, ex poliziotto, fu tra i primi ad arrivare in via d’Amelio dopo l’attentato. Scoprì che il fratello era tra le vittime proprio in quel momento. “L’ho riconosciuto dalla scarpa. Era una gamba appiccicata a un cerchione di una macchina e lì capì che mio fratello era in mezzo agli altri”. Insieme a Claudio Traina, in via d’Amelio, c’era anche Antonio Vullo, unico superstite della strage e da diversi anni amico fraterno di Luciano. Per la prima volta dopo anni, domani, Vullo non sarà sul palco allestito in via d’Amelio “perché sono stanco di certe situazioni. Noi sopravvissuti alle stragi siamo messi sempre in cattiva luce. Ritorno come i primi anni, mi metto in disparte”. E ha anche lui ribadito lo scopo della loro vita: “Dobbiamo lottare perché vogliamo la verità. La dobbiamo ad Agostino, a Claudio, a Vincenzo, a Emanuele, a Borsellino”.


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Parola alla società civile

Quindi è stato il turno dei membri della società civile. A partire dal CIDMA, Centro internazionale di documentazione sulla mafia. Un’associazione che ha sede a Corleone e che si propone di raccontare un’altra Corleone, non stereotipata, e da museo dell’antimafia. Un progetto al quale ha creduto Giovanni Paparcuri, autista del giudice consigliere Rocco Chinnici (sopravvissuto alla strage di via Pipitone Federico) e curatore del “Bunkerino” di Giovanni Falcone al Tribunale di Palermo, che ha donato ai ragazzi di CIDMA molta della documentazione da lui raccolta negli anni. Tra il cerchio spontaneo di poliziotti e familiari delle vittime ha preso parola anche Francesco Zavatteri, padre di Giulio, giovane ragazzo morto per overdose di crack il 15 settembre 2022, che dal giorno della tragedia si batte per debellare la piaga del crack a Palermo, sempre più dilagante (oggi una dose può costare anche 5€). “Un mondo terribile che sta interessando soprattutto i minorenni e se continua così tra qualche tempo cominceremo a dovere contare i morti di ragazzini”, ha denunciato. “Nessuno si rende conto che il crack da otto anni è a Palermo ma non si muove foglia e gli spacciatori ad oggi continuano a spacciare”. Quindi è stato il turno di Aaron Pettinari, caporedattore di ANTIMAFIADuemila. Pettinari, partendo dalla testimonianza di Zavatteri, ha lanciato un faro sulla quotidianità che se da un lato vede Palermo traversata da fiumi di droga come negli anni ’70, dall’altro, dando uno sguardo più generale, vede un'Italia sempre più privata di strumenti legislativi antimafia chiave (la riforma delle intercettazioni e l’abrogazione del reato di abuso d’ufficio sono solo alcuni esempi).


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Stiamo vivendo in un momento storico dove si sta facendo un passo indietro su troppe cose. E questo non è accettabile”. “Cerchiamo di chiederci perché, capire cos'è veramente accaduto e cosa sta accadendo, come si sono evolute le mafie oggi. Combattere insieme affinché vengono dati i giusti strumenti a chi ci dovrebbe tutelare contro queste mafie. Parlo della magistratura, della polizia giudiziaria, delle forze dell'ordine tutte”.
Io credo - ha concluso ringraziando il SIAP e Salvatore Borsellino - che l'informazione ha un ruolo importante, dobbiamo continuare a chiederci perché è sparita l’agenda Rossa, perché sono state manomesse le agende elettroniche di Falcone o Dalla Chiesa. Abbiamo bisogno di verità ed è una lotta che non è solo dei familiari”.


L’ultimo saluto alla stele

La mattinata si è conclusa con le parole del questore Calvino, un “questore della strada”, come l’hanno chiamato molti dei presenti con affetto e riconoscenza per i suoi quasi 40 anni da funzionario di polizia. “Testimoniamo nel luogo della memoria per eccellenza”, ha esordito. “Nel luogo della memoria si fa testimonianza ma si deve andare avanti. Siamo desiderosi di andare sempre oltre ogni ostacolo, lo dobbiamo a questi nostri martiri, ai giudici che sono morti, lo dobbiamo a tutti gli altri meravigliosi poliziotti che sono caduti nell'adempimento del loro dovere. Questa deve essere una delle nostre mission”. Infine, il saluto ai caduti davanti la stele del Reparto Scorte, con Salvatore Borsellino che ha scandito i nomi e i cognomi di Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvilo e i rispettivi agenti di scorta dei giudici caduti assieme a loro:  Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Foto © ACFB

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