Quando il senatore Scarpinato parlando delle stragi del ’92 dice che è un passato che non passa mai, centra il punto. Detto in altri termini: continuare ad occuparsi dell’agenda rossa non è soltanto un dovere morale verso quei morti ammazzati, ma è anche un investimento civile sul futuro dell’Italia, perché il potere che si è formato impastandosi di quelle stragi è attualmente determinante e rappresenta la più grave ipoteca sulla democrazia italiana.
La “normalizzazione” alla quale oggi stanno alacremente lavorando in tanti (anche insospettabili), punta da un lato a fare delle stragi (e di tutta la strategia della tensione) un passato-passato, neutralizzato e consegnato agli storici, dall’altro punta a beatificare tutti i protagonisti della nascita della “Seconda Repubblica” che avrebbero assicurato all’Italia dalla metà degli anni 90 pace sociale, rinnovamento politico ed istituzionale, ristrutturazione economica, un posto in prima fila in Unione Europea. Nient’altro che complimenti, insomma.
Una delle categorie più utili a questa “normalizzazione” è proprio quella della discontinuità, che ho già avuto modo di segnalare affrontando il caso del “Mago-Vespa”. Discontinuità versus continuità. Usando la “discontinuità” si riesce a spezzettare la storia in tanti fotogrammi, più addomesticabili: come si faceva con la mafia prima dei maxi processi, prima del 416 bis. Proviamo a fare un altro esempio: Arnaldo La Barbera.
Da quando la Procura di Caltanissetta ha ordinato di perquisire alcune abitazioni di famiglia La Barbera, abbiamo ricominciato a parlare del super poliziotto Arnaldo La Barbera, indicato come il regista del depistaggio “Scarantino” (1994) e come colui che avrebbe maneggiato la borsa di Borsellino nell’immediatezza della strage, anche approntando una relazione fasulla del 20 luglio, con la quale dava atto di aver consegnato la borsa al Procuratore Tinebra (lo riferisce Salvo Palazzolo, definendo giustamente il documento in questione come l’ennesimo frammento del depistaggio). I cultori della materia ricordano che La Barbera avrebbe cominciato a fare il “Mago” qualche anno prima e precisamente dopo l’assassinio di Nino Agostino e Ida Castelluccio il 5 agosto del 1989 a Villa Grazia di Carini, quando mostrando un album di foto-segnaletiche al padre di Nino, Vincenzo Agostino, avrebbe sollecitato la sua attenzione in maniera sospetta sulla foto di un tizio, che Vincenzo non riconobbe affatto e che risultò essere proprio quello Scarantino che sarebbe servito qualche anno dopo. Che sia l’aria di Palermo a fare male? Anche l’integerrimo poliziotto La Barbera, inviato a Palermo nel 1988 come nuovo capo della Squadra Mobile, si sarebbe improvvisamente convertito al prestigio dei depistaggi, smarrendo la retta via. Ma è davvero così? Ci sarebbe davvero un La Barbara “prima” e un La Barbera “poi”? Ho dei dubbi.
Bisogna avere la pazienza di tornare indietro di quasi dieci anni: siamo nei primi anni 80 a Venezia, dove La Barbera era già un investigatore di punta e rispolverare una inchiesta che avrebbe terremotato un sistema criminale internazionale fatto di mafie, organizzazioni terroristiche, politici affamati e spregiudicati, morfina base, eroina e armi utilizzate come proto-criptovalute. L’inchiesta è quella cominciata a Trento da un giovane giudice istruttore: Carlo Palermo. Il giudice dopo pochi mesi sequestrerà centinaia di chili di morfina base ed eroina e arresterà due tra i principali protagonisti di questo sistema criminale: l’altoatesino Karl Kofler e il turco Arslan Hanifi.
Il turco, elemento di spicco sullo scacchiere internazionale, riuscì incredibilmente ad evadere dal carcere di Trento (28 maggio 1982), con modalità rocambolesche che mi hanno ricordato quelle della fuga del boss Raduano dal carcere di massima sicurezza di Nuoro (ma che fine ha fatto Raduano?). Karl ebbe invece un destino più tragico: si tolse la vita in carcere, ma anche lui in modo incredibile perché riuscì contemporaneamente a tagliarsi la gola e a perforarsi il cuore con uno stiletto mai ritrovato nella cella. Il Giudice Carlo Palermo, racconta nel suo libro La Bestia di aver dovuto fare i conti con una gestione a dir poco spregiudicata del turco da parte di un intraprendente investigatore che, d’accordo con un magistrato, lo aveva fatto uscire dal carcere di Venezia e usato come fonte confidenziale: Arnaldo La Barbera. È lecito pensare che l’evasione definitiva del 1982 sia stata una forma gratificazione extra-legem?
L’inchiesta di Carlo Palermo peraltro fu letteralmente presa d’assalto da “fuoco amico”, lo stesso Procuratore generale di Trento fece il possibile per dirottarla a Venezia, cosa che poi effettivamente avvenne. Il Procuratore generale si chiamava Adalberto Capriotti e lo ritroveremo poi a capo del Dap nel dopo stragi. Carlo Palermo chiese e ottenne di essere trasferito a Trapani dove, quaranta giorni dopo il suo arrivo, provarono a farlo saltare in aria con un’autobomba a Pizzolungo: il giudice sopravvisse, venne sterminata una famiglia (Barbara Rizzo con i suoi figli Giuseppe e Salvatore Asta).
Il politico che più osteggiò quell’inchiesta e quel giudice istruttore fu Craxi, lo stesso che avrebbe poi fatto di tutto per delegittimare Antonio Di Pietro (come ha ricordato lo stesso Di Pietro, parlando del ruolo di Paolo Berlusconi, nella seconda audizione in Antimafia). Nell’inchiesta di Carlo Palermo compariva anche il nominativo di un personaggio legato al terrorismo altoatesino del decennio precedente, Herbert Oberhofer. Territorio, l’Alto Adige, dove si era già messo in luce un giovane capitano dei carabinieri, Mario Mori. Oberhofer, considerato un informatore dei Servizi, uscirà assolto da ogni imputazione. Disse bene Carlo Palermo iniziando una arringa nel 2002, ormai in veste di avvocato di parte civile nel processo per la strage di Capaci: “Tutto è collegato”. La “discontinuità” è l’ancella della normalizzazione.
Tratti da: ilfattoquotidiano.it
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