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In compagnia di amici attivisti veronesi sono andata ad una Mostra dedicata al Giudice Rosario Livatino. Avevo già qualche domanda in testa: “Che magistrato era, perché la mafia lo ha voluto uccidere, perché è stato beatificato”. Il titolo della Mostra: “Sub tutela Dei” (sotto la protezione di Dio), lasciava ben sperare di trovare le risposte alle mie domande. L’evento si rivelerà grande fonte di ispirazione per chi, come noi, crede che la lotta alla mafia sia compito di ogni cittadino.

La Mostra itinerante, ad ingresso gratuito, ha visto i natali a Rimini, ha attraversato l’Abruzzo per trasferirsi in marzo a Verona fino al 21 marzo, sarà disponibile in aprile a Padova e continuerà il suo viaggio in tutta Italia.

Scopo dell’evento è rendere noto al grande pubblico, soprattutto ai giovani, la figura di Rosario Angelo Livatino, magistrato siciliano ucciso da sicari della mafia nel 1990 a 38 anni e beatificato nel 2021 durante il Pontificato di Papa Francesco. Il sacrificio di Livatino si intreccia, grazie alla beatificazione, a quella di Pino Puglisi, fissando la dura presa di posizione della Chiesa Cattolica attuale verso la criminalità mafiosa.

La Mostra contiene una serie di interviste inedite alle persone che, tuttora viventi, hanno avuto rapporti significativi con il Magistrato Beato, nonché 35 pannelli con gli estratti più rilevanti dei suoi scritti e con le lettere di uno dei mandanti e di uno degli esecutori, successivamente pentiti, del suo omicidio. Una parte rilevante dell’evento sarà dedicata al testimone del delitto, Pietro Nava, un imprenditore milanese che assistette all’omicidio. Nonostante le pressioni, Nava decise di entrare nel programma di protezione e testimoniare.

Gli organizzatori della mostra non hanno avuto vita facile, in quanto il giudice viveva in completa riservatezza e non rilasciò alcuna intervista. Preziose furono le testimonianze dei compagni di studi e degli insegnanti che, vedrete nei video proposti alla Mostra, lo descriveranno con grande trasporto. Di grande aiuto furono anche le sue “Agendine”, nelle quali annotava i preziosi movimenti del proprio Spirito e le ispirate intuizioni giuridiche. (copie delle “Agendine” sono disponibili alla Mostra).

Due parole sulla biografia di questo grande magistrato.

Rosario Livatino nasce a Canicattì il 13/10/1952 , si laurea con il massimo dei voti alla facoltà di Giurisprudenza a Palermo nel 1975. Opera come procuratore ad Agrigento per dieci anni e nel 1989 diventa Giudice Penale nella stessa città. Dopo appena un anno, il 21settembre 1990 verrà freddato dalla “Stidda”.

Ma torniamo alle mie domande: “che magistrato era, perché la mafia lo ha voluto uccidere, perché è stato beatificato”. Nell’aula di tribunale in cui operava Livatino, aula che gli organizzatori hanno magistralmente riprodotto, ho chiuso gli occhi e ho mentalmente ricostruito il difficile contesto omertoso nel quale il Giudice operava, con scarsa collaborazione delle istituzioni, senza scorta, né strumenti come intercettazioni e “41 bis”, né programmi di protezione per i pentiti, tutti strumenti oggi indispensabili per contrastare il fenomeno mafioso. Lo vedo mentre raccoglie le sue immense forze e, lasciandosi guidare dal suo intuito straordinario, realizza che l’unico modo per colpire il mafioso è colpirlo nei suoi beni, perché così perde soldi ma soprattutto potere. Il Giudice sa quanto il mafioso non tema il carcere quanto il depotenziamento agli occhi della società. È sua l’idea di confiscare già prima del processo. Ed è così che si crea i nemici che decideranno la sua esecuzione. Non dimentichiamo inoltre che, proprio in quel periodo, Cosa Nostra vede al suo interno un’insanabile spaccatura tra i Corleonesi e la nuova famiglia della “Stidda” che agiva in posizione di sfida rispetto a Cosa Nostra. È necessaria, a questo punto, una prova di forza per intimidire la magistratura e dimostrare ai rivali corleonesi che la criminalità di Agrigento è altrettanto spietata.

Il 21 settembre 1990 il Giudice esce di casa, viene inseguito, ferito ad una spalla, tenta di fuggire, inciampa, viene raggiunto dai killer che gli scaricano una mitraglietta mirando al volto. Uno di questi mafiosi farà in tempo a dire: “Tieni, pezzo di merda”. Livatino farà in tempo a dire: “Picciotti, cosa vi ho fatto?” Rosario sta morendo e ha a cuore la coscienza dei loro assassini.

Cosa avrà pensato Giovanni Falcone davanti al corpo di Rosario? Appena scampato all’Addaura, parte da Milano in fretta e furia per onorare il giovane collega.  Falcone stava indagando su infiltrazioni mafiose insieme a Ida Boccassino. Cosa avrà pensato Paolo Borsellino, il primo a sollevare il lenzuolo bianco? Li vedo, Falcone e Borsellino, mentre ripercorrono le indagini che Livatino conduceva sui Boss della “tangentopoli siciliana” che andavano a Montecitorio a trattare i propri affari, svelando i rapporti allora impensabili con la politica. Li vedo, mentre pensano ai traffici internazionali non solo di droga ma anche di armi che coinvolgono Iraq, Liegi, Tunisia e Bruxelles. Li vedo, Falcone Borsellino, mentre hanno la geniale intuizione di creare la Superprocura che farà decollare l’antimafia italiana. Dopo tre anni, toccherà a loro. Anche loro scomodi e incorruttibili.

Come ebbe a dire la dottoressa Simona Pelliconi, che ci accompagnò con grande cura per tutta la mostra, Livatino fu capace di vivere “lo straordinario nell’ordinario” e fu per la nostra guida fonte di grande ispirazione per vivere anche lei l’avvocatura come realizzazione della volontà di Dio. Anche il mestiere dell’avvocato, precisò Simona, così lontano dall’Amore Cristico, con la testimonianza di Livatino, può essere vissuto amando l’imputato. In un costante rapporto con Dio, Rosario comprese che giudicare significava rendere giustizia, amando la persona giudicata. Agli imputati diceva: “Non sei sbagliato, hai sbagliato”.

Tante cose traspaiono dalle sue “Agendine” dove annota che accetta il destino che il Signore ha in mente per lui; solo per Cristo lui avrebbe donato la sua vita, “Sub tutela Dei”, come annoterà nella sua “Agendina”. Rosario non era per niente rassegnato, amava la vita ma era pronto a sacrificarsi per Cristo. I mafiosi erano consapevoli che la forza del Giudice-Ragazzino, poggiando su basi spirituali, era tale che non sarebbe mai arretrata a trattamenti lassisti.

La morte di Livatino fu riconosciuta dalla chiesa  come martirio. Dei ventotto magistrati italiani uccisi dalla mafia, Rosario fu l’unico beatificato. Due degli esecutori materiali, Domenico Pace e Gaetano Puzzangaro e il mandante Salvatore Calafato si sono convertiti e pentiti, si sono impegnati per il processo di beatificazione.

Come dice Giorgio Bongiovanni, quando i malavitosi passano dall’altra parte, diventano i più preziosi alleati perché, con lo stesso ardore con cui prima praticavano il crimine, ora collaborano e praticano il bene.

Domenico Pace è il sicario che ha ringhiato: “Tieni, pezzo di merda” e adesso rivela che sente Livatino vicino a sé e gli dà serenità.

Concludo ricordando che, uscendo dal Palazzo Della Gran Guardia ho guardato i miei compagni di avventura e ho pensato: “Col cavolo che le stragi di mafia hanno ottenuto la morte, hanno ottenuto che le vittime sono più vive di prima!”

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