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ANTIMAFIADuemila in quanto rivista specializzata, si rivolge ad un pubblico già responsabilizzato sull’importanza della lotta alla mafia. Questa peculiarità unita al ragguardevole numero di visualizzazioni può inorgoglire, ma al contempo si percepisce tutto il peso che comporta operare per porre rimedio ad una grave lacuna nel mondo dell’informazione. 

Sembra che generalmente i media trattino l’argomento quando proprio non possono evitare di farlo; accade per esempio nei giorni degli anniversari delle stragi, o per casi eclatanti come lo scandalo Palamara, o ancora quando viene arrestato il boss super latitante di turno.

Durante i giorni delle dovute commemorazioni assistiamo quindi ad un teatrino dove regnano l’ipocrisia e la retorica di una narrazione che esalta la figura di uno Stato sempre vigile e presente. Peccato che poi impegno e promesse, appositamente confezionate per le passerelle e la distratta opinione pubblica, siano spesso disattese in sfregio all’instancabile e costante ricerca della verità da parte dei familiari delle vittime e alcuni magistrati coraggiosi, coscienti portatori di questo pesante fardello. 

Oltre a queste rievocazioni di circostanza, ravvisiamo da larga parte dei media una condotta che nel migliore dei casi è l’effetto non trascurabile di un retaggio culturale poco consapevole della propria connivenza con la mentalità mafiosa, foriera di portare l’individuo a scegliere sempre di anteporre al bene comune, il proprio vantaggio personale e particolare, di casta, partito, azienda o apparato.

Avviene anche, però - inutile nasconderci dietro ad un dito - che si attuino tecniche di manipolazione dell’opinione pubblica finalizzate a soddisfare i desiderata dei mafiosi, i quali coincidono con l’interesse dell’intero sistema criminale integrato. Manipolatori e inquinatori di pozzi ne sono quindi parte attiva.

Accade così che non solo si eviti di aprire dibattiti ed approfondimenti sulle sentenze di importanti processi, ma si faccia di tutto per gettare fango sull’avanguardia della lotta alla mafia; proprio come successe a coloro che hanno incontrato piombo e tritolo dopo essere stati accusati di protagonismo, ostacolati e infamati in modo tanto fantasioso da superare il limite del grottesco! Sopravvivere ad un attentato non riuscito diventava persino una colpa a carico dei cosiddetti “professionisti dell’antimafia”. Un esempio indimenticabile ed emblematico fu quando si arrivò ad insinuare che Falcone avesse lui stesso piazzato la dinamite all’Addaura per un avanzamento in carriera.

Senza fare loro nessuno sconto, ci tocca sopportare i professionisti della menzogna che impunemente sembra facciano a gara per chi la spara più grossa. 

Protetti dalla fama di intellettuali, non sempre sono visti semplicemente come stupidi; il ché diventa ancora più inquietante, perché se così non fosse sarebbero dei collusi... Nello specifico non ci stupiamo che personaggi dal passato ingombrante definiscano il “processo trattativa” una minchiata, o la Norimberga "de’ noartri".

A proposito di dichiarazioni con nomi e cognomi, rimandiamo il lettore alla nuova edizione del libro scritto da Saverio Lodato e Nino Di Matteo "Il Patto Sporco e il Silenzio", dove i fatti presi dalla sentenza di appello del  processo sulla “trattativa”, sono ben circostanziati e le riflessioni in merito sono tanto sapienti quanto eleganti e talvolta ironiche.

Nei decenni passati, quando la mafia si palesava come braccio armato, non caddero vittime solo magistrati, agenti delle forze dell’ordine e qualche politico; diversi giornalisti lasciarono la pelle sul campo (colpirne uno per educarne 100).

Il giornalista deve essere il cane da guardia del potere e non il cane da salotto della politica, e a questo proposito cito Pippo Fava (assassinato nell’84 dalla mafia) nel suo editoriale

Lo spirito di un giornale:

 “…il giornalismo rappresenta la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, la violenza e la criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.

Fondamentale quanto ardua la missione di un giornalista che, tralasciando i tanti freelance ai quali va anche peggio, non se la passa molto bene in quanto a libero esercizio dello spirito critico.

Tra una popolazione poco avvezza alla lettura ed il timore di bucare la notizia, in qualche modo si deve allineare alla narrazione mainstream e compiacere l’editore, il quale a sua volta deve barcamenarsi in un mondo fortemente competitivo. Anche solo per esigenze di sussistenza, per il povero intellettuale giornalista diventa quasi vitale puntare sulle ospitate televisive; il ché è tutto dire in merito a libertà e profondità di pensiero (per fortuna esistono eccezioni che rappresentano una nicchia nel panorama televisivo).

A proposito di manipolazione mediatica, dall’esempio sopra citato sullo scandalo Palamara si può riconoscere l’insana modalità con cui si è dato spazio alla sua versione di reo confesso, che è stata usata non per esprimere un reale ravvedimento, ma per difendersi dalle accuse, gettare il bambino insieme all’acqua sporca buttando tutto in caciara e spingere l’opinione pubblica ad avallare la volontà mafiosa di delegittimare e minare l’indipendenza della Magistratura. 

Fino a prova contraria, almeno in questo caso, quest’ultima è stata capace di processare se stessa, a differenza di quanto non sappia fare la politica. 

Per il livello del dibattito televisivo e per come è stata trattata la questione, siamo anche qui sul limite del grottesco! Abbiamo un caso divulgato da un giornalista schierato da sempre al servizio di chi ha nell’armadio più scheletri che vestiti; un po’ come se la Chiesa nella gestione del catechismo cattolico si affidasse ad un satanista. 

Scherzi a parte, purtroppo situazioni simili in Italia sono quasi scontate, ma ciò non toglie che il libro con le rivelazioni di Palamara non debba essere tenuto seriamente in considerazione. Oltre ad aprire un dibattito all’insegna della ponderatezza sarebbe forse stata opportuna una commissione parlamentare d’inchiesta… Cosa insolita per un  parlamento che spesso procede  per decreto, più avvezzo allo scontro che alla discussione e al confronto.

I casi in cui sono mancati i cani da guardia del potere sarebbero molti. Il pensiero va per esempio a Mario Draghi, quando da capo della Banca d’Italia ha autorizzato Mussari, presidente di Monte dei Paschi ad acquistare Antonveneta, causando così un crack finanziario costato poi agli Italiani diverse decine di miliardi di euro. Secondo quale logica è avvenuto questo crimine contro la collettività? Sarebbe stato interessante ascoltare la sua eventuale supercazzola degna del Conte Mascetti (Tognazzi in grande spolvero). Peccato però che non siamo dentro una commedia, ma dentro alla farsa di atti criminali non percepiti come tali. 

 I veri cattivi da processare pare debbano essere solo quelli con le mani letteralmente sporche di sangue.

In barba alla strategia voluta da Giovanni Falcone, si paventa il rischio della volontà di dare risposte rassicuranti anche verso i boss stragisti, nel nome del garantismo dei diritti umani. Costoro non devono essere indotti nella tentazione di vuotare il sacco a danno dell’impunità dei veri mandanti delle stragi e dei corresponsabili di tanti fatti indicibili.

Arrivando infine all’arresto del boss super latitante, non mancano le manipolazioni mediatiche atte a distrarre un pubblico generalmente frastornato da una mole di informazioni che non è in grado di metabolizzare e gestire.

A fronte di una vaga percezione nel popolo che si stia giocando una partita molto seria, si scade invece nel gossip (i poster, l’arredamento, il guardaroba, i preservativi, ecc.). Si va a soddisfare la maniacale ossessione per i dettagli; inutili ai fini della comprensione di una visione d’insieme, ma funzionali alla normalizzazione di ciò che non è normale, così che l’uomo della strada non si senta tanto differente da un figuro che invece si è macchiato di atti efferati e disumani.

In questo particolare momento in cui l’opinione pubblica è stata scossa dall’arresto di Matteo Messina Denaro è opportuno incoraggiare i giornalisti che si stanno esponendo.

Che ci sia nella popolazione il sentore di una realtà tanto grave quanto sconosciuta, mi riporta alle parole di un altro grande giornalista che non a caso negli ultimi anni della sua carriera non veniva più invitato nei salotti televisivi: Giulietto Chiesa. In più occasioni ci ha regalato una metafora calzante nei vari contesti di questo periodo storico, riferendosi all’attuale livello di comprensione della sua complessità: “Ci troviamo - disse durante un suo intervento nel 2018 su Sovranità e Mondializzazione - appunto in questa fase, in cui i popoli sono come i cani che guaiscono in attesa del terremoto. Intuiscono il pericolo ma non sanno dove, quando e perché arriverà”. 

Chiudo questa analisi sulle responsabilità del giornalismo, demandandone un pochino anche ad ogni cittadino per la mancata attenzione più in generale verso la nostra Costituzione. Monito non solo verso chi ha la missione di fare informazione, ma anche per chi seppur legittimamente invoca la sovranità monetaria, economica ecc. Sempre attraverso le parole del compianto Giulietto nell’incontro citato qui sopra: “Il primo articolo recita che la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. La saggezza racchiusa nella seconda parte della frase rimanda non a un popolo qualsiasi che prende ed usa la sovranità come gli pare, ma che la esercita nei limiti che esso stesso si è dato, nei limiti che il popolo stesso individua per definirsi sovrano. Ma il popolo di oggi è lo stesso popolo di allora? Io penso che non lo sia. I processi degenerativi, innescati in questi ultimi cinquant’anni e tutt’ora in corso, hanno modificato radicalmente il popolo italiano. Siamo di fronte ad un popolo ignaro ed un popolo ignaro non può essere sovrano di nulla, nemmeno di se stesso”.

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