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Il carcere non è solo un gigantesco muro corvino che guarda il firmamento, ma quando è donna, in un mondo di uomini, è probabile che lo diventi. Giaele, 30 anni, ex detenuta, inciampata da ragazzina in reati piccoli e frequenti, racconta “quel pezzo di carcere da abolire” confidando anche come lo vorrebbe: “Con uguali diritti per tutti”.

L’ex favoreggiatrice della mala milanese, spezza una lancia “a sfavore” del sistema detentivo italiano. Ci dice: “Se la prigione è un luogo di dolore, la prigione femminile, a causa di un’istituzione progettata da e per gli uomini lo è ancora di più”.

Ci si chiede: in un sistema carcerario (da ripensare), incentrato su regole modulate su una visione maschio-centrica, quanti fiotti di parole, inchiostro e carta dovranno ancora scorrere prima di sprigionare dal blindo delle buone intenzioni l’umanità femminile che vive dietro le sbarre? Fino a quando le agorà penitenziarie continueranno a essere considerate invisibili gattabuie, tributo alla morte, “cimitero dei vivi”, e non microcosmi brulicanti di vitalità?

A rispondere a questo grido, in nome delle oltre 2mila donne-detenute rinchiuse nella circa cinquanta sezioni femminili ricavate all’interno delle carceri maschili, ci prova Melissa Miedico, professoressa associata presso il Dipartimento di studi giuridici dell’Università Bocconi e responsabile del progetto cliniche legali dell’Ateneo milanese.

“La carcerazione femminile rappresenta meno del 5% della popolazione carceraria, e subisce un’ulteriore discriminazione proprio per questa condizione di minoranza”. Quindi, “la sofferenza delle detenute è tanto più carica di emozioni, di emotività e sensi di colpa verso l’esterno e la famiglia che rimane fuori. Anche gli uomini provano sofferenza, ma è una sofferenza più razionale”.

“Qualche giorno fa”, racconta la prof di via Sarfatti che spesso porta gli studenti nel carcere di Bollate, "un detenuto mi ha detto: “Le donne soffrono una doppia detenzione, quella che le priva della libertà e quella che le priva della femminilità”. In effetti la “donna criminale”, secondo gli stereotipi, tradisce non solo femminilità, ma anche vocazione materna. Si tratta però di un preconcetto che risponde a una realtà generalizzata che non riguarda specificatamente Bollate, che considero invece officina di idee e laboratorio di sperimentazioni”.

La Miedico, in mondo ossessionato dall’emancipazione del gentil sesso, ma fondato su un farisaico rispetto delle “quote rosa”, rivolge uno sguardo anche alle forti criticità sanitarie interne al carcere delle donne, privi di servizi di ginecologia, ostetricia e pediatria. C’è poi la questione “cuore”. Se fino a ieri, nelle carceri, così come nel sesso, vigeva “il diritto di rimanere in silenzio” e “il dovere di arrestare e tenere in gabbia la libido”, oggi sembrano essere le carceri stesse a issare a patrimonio inalienabile il diritto alla affettività e alla sessualità.

“In Italia è stata avanzata l’ipotesi delle “stanze dell’affettività”. Ma sono state però tacciate sin da subito come “celle a luci rosse”. “A Bollate ce n’è una anche al Femminile. È arredata con divano e Tv. Prima del Covid le recluse potevano soggiornarvi col partner, figli o amici, ma purtroppo dentro a uno spazio di detenzione appare ancora molto difficile conciliare l’inviolabilità di questi diritti”.

Tratto da: ristretti.org

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