L’introduzione di Salvo Vitale
“Non sempre lo scrivere ha un effetto terapeutico; quando ripenso con lucidità alla sequenza di eventi, a come si sono svolti, alle macchinazioni che li hanno prodotti mi viene da vomitare” (pag. 100)
La citazione di Marta, autrice del libro è lo specchio di una parte di un sistema giudiziario che anche l’Europa ci chiede di riformare: non credo che il pannicello caldo della riforma Cartabia, approvata dal Parlamento il 16.6.2022, o la bocciatura dei quattro referendum sulla giustizia abbiano risolto gli annosi e drammatici problemi che caratterizzano il ruolo dei giudici, il modo di avviare le indagini, istruire i processi e portarli a sentenza. Non mi addentrerò in questo campo perché non ne ho le competenze e, ove ce ne fosse bisogno, voglio precisare che questo non è un giudizio critico su tutta la magistratura italiana e sul suo operato, ma su un sistema che ha nel giudice “l’arbitro in terra del bene e del male” (F. De Andrè) con enormi poteri, primo fra tutti quello di porre sotto sequestro i patrimoni privati, anche sulla base di sospetti, senza bisogno di procedimenti penali. Questa arbitrarietà lo pone in taluni casi al di sopra della legge stessa, che egli rappresenta, grazie alla sua non punibilità nell’esercizio del suo lavoro.
Il caso Impastato
Sono entrato in un’aula giudiziaria nel 2000, citato come teste nel processo per Peppino Impastato. Un iter iniziato nel 1978, quando il mio amico venne fatto saltare in aria con un carico di tritolo sui binari e l’omicidio venne depistato come attentato terroristico o suicidio. Ventiquattro anni di inchieste, controinchieste, chiusura e riapertura delle indagini, sino al processo, durato oltre sei anni e conclusosi con la condanna dei mandanti del delitto. In mezzo, un gruppo di compagni, decisi a volere giustizia e una donna eccezionale, Felicia, la madre di Peppino ostinata nella sua intransigente voglia di vedere alla sbarra gli assassini di suo figlio. Alla fine abbiamo vinto, ma con l’amaro in bocca, davanti alla considerazione che, per avere giustizia non si può aspettare 22 anni. Un tempo trascurabile, davanti ai morti di Portella della Ginestra, che aspettano dal 1947, con alcuni degli atti che li riguardano, ancora secretati.
Processo alla satira
Mi sono ritrovato alla tarda età di 72 anni, come imputato, all’interno di un’aula giudiziaria, per essermi permesso di satireggiare su un giudice presidente di sezione, su un procuratore capo, su un colonnello della DIA e su alcuni amministratori giudiziari, legati da vincoli di collaborazione: un semplice articolo risolvibile in una risata, si è trasformato in un atto di diffamazione nei confronti del procuratore-capo, con la richiesta, nei miei confronti, di una condanna a un anno e mezzo di carcere e una penale di molte migliaia di euro. In quel momento mi sono sentito come un criminale, in un tribunale d’inquisizione, dopo una vita passata a difendere la legalità e a promuoverla. “Chi tocca i fili muore”. Alla fine sono stato condannato a pagare 500 euro di multa, anche in appello, ed ho fatto allora la prima riflessione sul fatto che non esistono sentenze giuste, ma solo sentenze, che la giustizia non è un nobile concetto immortale, al di là delle debolezze umane, ma l’applicazione e l’espressione di decisioni prese da uomini sulla colpevolezza o innocenza di un imputato, ricavata sulla base di personali convinzioni, di pressioni amichevoli e politiche, di pregiudizi, di volontà di arrivismo, di arringhe affidate all’autorevolezza e all’eloquenza dell’avvocato e del pm e altre infinite concause.
Il pre-giudizio
Quando il giudice avvia il procedimento, su segnalazione, denunce, indagini degli organi inquirenti, ha già percorso un buon tratto della strada che porta alla decisione finale. Per spuntarla non si esclude il ricorso a qualsiasi espediente, dall’occultamento di reperti e documenti che hanno un peso risolutorio, al passaggio alla stampa di atti del procedimento coperti dal segreto istruttorio, ma che servono ad avviare la criminalizzazione dell’inquisito e quindi a tracciare con evidenza la strada della sua colpevolezza ante litteram, della quale la condanna è l’atto finale. Si fa presto a dire che una persona non può essere giudicata colpevole sino al momento della sentenza definitiva: il giornalismo italiano decide della sua colpevolezza al momento dell’apertura delle indagini e, in caso di assoluzione, cinque, sei, dieci anni dopo, tutti hanno ormai rimosso il caso di colui che hanno pre-giudicato.
Il patteggiamento
Nella mia attività giornalistica mi sono imbattuto in drammi umani, storie di persecuzioni e accanimenti giudiziari, di maltrattamenti carcerari, di ricatti fatti dai giudici, come quello, citato nel libro, di Nicola Sarcinella: “Patteggia e vedrai tuo figlio”, un bambino appena nato. E il patteggiamento è un’ammissione di colpa che gratifica e rende credibile l’operato del giudice che ha avviato l’indagine, di quello che ha rinviato a giudizio e di quello che si è occupato del successivo procedimento: scegliere la via del processo è un rischio che si può evitare con una semplice dichiarazione che confermi che lo stato non ha speso i suoi soldi inutilmente. Per contro il dramma si allunga, si amplifica, erode giornalmente la sensibilità e la coscienza di chi sa di non aver commesso alcun reato e di essere vittima di strategie e meccanismi di cui egli è solo un minuscolo frammento, sulla cui pelle è possibile giocare. “Durante la mia ingiusta detenzione faccio uno sciopero della fame, penso al suicidio, subisco un’aggressione sessuale. Non avrei mai resistito senza la mia fede in Dio. E senza la voglia di tornare da mio figlio”. (pag. 77).
La perdita della stima di chi ti circonda, spesso anche degli affetti più cari, oltre che la credibilità, il posto di lavoro, i propri beni posti sotto sequestro, sono gli aspetti più dolorosi, legati alla condizione interiore di chi si trova nell’occhio del ciclone e spesso non riesce a sopportare il meccanismo che già in partenza lo individua come responsabile e colpevole, e l’angoscia può anche portare al suicidio, come nel caso del Rettore dell’Università di Parma Loris Borghi, (14 marzo 2018) subito archiviato e presentato come un’ammissione di colpa.
Il caso di Pino Maniaci
Il direttore della emittente in cui presto la mia collaborazione, Pino Maniaci, alle tre di notte si vide presentare alla sua casa tre alti ufficiali che gli notificarono il divieto di risiedere in provincia di Palermo e di Trapani, divieto revocato dopo pochi giorni, per un vizio di forma, reiterato, revocato di nuovo, con l’accusa di estorsione e la diffusione nazionale di un video che, ritagliando frammenti d’intercettazione, attraverso riprese preconfezionate dalle stesse forze dell’ordine, presentava come estorsione alcune richieste di qualche contributo di assistenza per una bambina disabile, in un contesto in cui l’imputato era presentato come un pervertito e uno che usava la sua emittente per ricattare i politici locali. Anche qua cinque anni di udienze, rinvii, testimonianze prima firmate, durante gli interrogatori, poi revocate, per arrivare all’assoluzione. Ma anche qua chi aveva istruito il caso non poteva ammettere di essersi sbagliati, per cui sono state emesse alcune sentenze di condanna per diffamazione a mezzo stampa che nulla c’entravano con l’inchiesta, ma che erano state messe dentro come punto di giustificazione di tutto l’impianto processuale. Maniaci ha subito commentato: “Quando ti buttano addosso un secchio di merda, la puzza non se ne va più”. E in realtà quella puzza è rimasta. (vedi il mio libro “In nome dell’antimafia”).
Il caso di Marta
Gli avvenimenti in cui si trova coinvolta Marta si muovono su un binario che da un lato affronta e descrive la sua odissea giudiziaria, dall’altro il percorso difficile e praticamente fermato o quantomeno rallentato, bloccato, dopo questa inchiesta, di inserire, nella medicina ospedaliera italiana la terapia del dolore tra i settori ai quali è indispensabile ricorrere per le condizioni e le patologie di un paziente, che non è solo quello terminale o oncologico. Marta aveva cominciato ad occuparsi della terapia del dolore anche all’interno delle carceri, quando è stata bloccata nel suo progetto.
Tutto comincia con la data d’inizio del libro, l’8 maggio 2017, allorchè un esercito di 200 carabinieri di tutte le regioni del Nord Italia, si mobilita per una operazione definita Pasimafi, con l’arresto di 19 medici e operatori del settore, oltre che con il sequestro di due società e di 470 mila euro. L’accusa è quella di corruzione ed è condotta dai NAS di Parma e dalla locale Procura. 52 perquisizioni, 75 indagati, in capo a tutti un luminare della terapia del dolore, oltre che un estensore della legge 15 marzo 2010 n. 38, il prof. Fanelli: per semplificare il tutto, sembra che l’accusa sia quella di agevolare alcune ditte nella prescrizione dei farmaci, in cambio di illeciti profitti e incarichi. Prima curiosità: Marta saprà solo dopo sette mesi, cioè, ci tiene a precisare, duecentotrentuno giorni, di essere nell’elenco degli indagati, fatto circolare intanto in tutta la stampa locale e nazionale.
Spunti e giudizi
Lascio alla sua incazzata scrittura il racconto di quanto è successo, ma non posso fare a meno di citare alcuni suoi spunti e giudizi degni di nota, per illuminare tutta la vicenda:
- “la notizia” come veicolo del “far carriera”, sia nel settore del giornalismo che in quello dei magistrati che se ne servono per rendere note le loro indagini e predisporne la conclusione.
- “la questione politica, giochi di potere, di appoggi mancati…”. E’ una pista appena abbozzata, dove si parla di contatti tra il prof. Fanelli ed esponenti del PD, di una procura guidata da Gerardo Laguardia, anche se il suo mandato è scaduto da mesi, di un’inchiesta della procura di Ancona nei suoi confronti e nei confronti di una sua sostituta, Paola del Monte, titolare dell’inchiesta Pasimafi, il cui marito, qualche giorno dopo l’arresto in diretta del comandante della Polizia Municipale di Parma, presenta domanda per ricoprire l’incarico rimasto vuoto. In mezzo c’è anche la caduta, per una serie di arresti, della giunta di centrodestra, la candidatura a sindaco nel PD di Laguardia, il suo flop e l’exploit di Pizzarotti. Si accenna, ma solo di passaggio, al presunto mancato appoggio dell’Università al candidato del PD e quindi a una possibile resa dei conti con il prof. Fanelli e la sua equipe, dopo il suicidio del rettore. In mezzo spunta anche il pm Amara, uno dei titolari dell’inchiesta Parmalat, firmatario di tutta la prima parte dell’inchiesta, che, malgrado una sua presunta inesperienza, contro ogni evidenza muove accuse prive di fondamento.
- “Non conta l’etica di una persona”, puoi essere il migliore cittadino del tuo stato, uno in odore di santità, avere contribuito a vincere battaglie di libertà, nel momento in cui finisci sotto la mannaia non c’è scampo, anzi, più alto è il rispetto e l’onorabilità della persona individuata come responsabile o colpevole, maggiore è lo scandalo e il lustro che ne viene al magistrato che se ne occupa.
- La richiesta di essere ascoltato, di dare la propria spiegazione e testimonianza, è spesso tollerata, ignorata, respinta o ridotta a un semplice atto formale. La stessa presenza dell’imputato è del tutto irrilevante, fuori del momento della sua deposizione, se richiesta.
- un’altra tecnica che dimostra l’ipocrisia di una giustizia fasulla è quella usata da molti pm, che sono soliti richiedere il doppio o il massimo della pena, rispetto a quanto realmente applicabile in rapporto al reato commesso, in modo da poter dire, al momento della sentenza che dimezza la richiesta, che l’accusa era fondata, che l’impianto ha retto, e da poter dare anche un contentino agli avvocati e alla parte sotto accusa.
- i giudici non pagano mai per i loro errori giudiziari. “E chi se ne frega se, a causa «di un rilevante errore di valutazione» c’è chi il lavoro non ce l’ha più, o la sua carriera è stata distrutta, o, come estrema conseguenza, ha perso la vita. Qual è il problema? Sono degli untouchables” (pag. 91)
- E’ appena accennato, ma val la pena citarlo, il cerimoniale barocco, la toga, l’alzarsi in piedi all’arrivo della corte, il rinvio, il giuramento del teste, la messa a verbale, la lettura della sentenza, la deposizione dei testi, la requisitoria, l’arringa, la difesa ecc. Una sorta di recita surreale con la sua rigida etichetta, in cui il risultato finale non è una sentenza “giusta”, al di là di altre verità possibili, sia storiche che costruite in sedi esterne a quella giudiziaria. E se poi questa giustizia è ribaltata in appello e confermata in Cassazione, alla fine vale l’ultimo pronunciamento e diventano sbagliate le sentenze che precedentemente erano state ritenute “giuste”.
Conclusioni
Le conclusioni della vicenda si riassumono nei cinque anni di durata del processo a Marta, nei precedenti cinque anni d’intercettazioni, rivelatisi alla fine materiale inutile, malgrado il maldestro tentativo di ritagliare alcune frasi, staccarle dal suo contesto e usarle come prova d’accusa. E infine nei 158.142,82 mila euro che non saranno mai rimborsati e che Marta ha potuto spendere perché ne aveva la disponibilità. In un certo momento l’indagine viene spezzettata e divisa con le procure di Lecco e La Spezia. A Lecco viene decisa la cancellazione di tutti i capi d’imputazione, così pure a La Spezia.. Inutile parlare delle spese di 5 anni d’intercettazioni, delle loro trascrizioni, di quelle dei fascicoli fotocopiati e spediti alla procura di Lecco, per poi, dopo alcuni mesi di ritardi ed esami superficiali, essere rispediti a Parma, del costo delle udienze e di altre spese giudiziarie, delle indagini dei NAS ecc. Il tutto risolto in una bolla di sapone che è finita sulle spalle dei contribuenti, ovvero il solito “Cappellaccio paga tutto”.
Un auspicio
Il caso di Marta Gentili è uno dei tanti di malagiustizia che diventa tale perché ha trovato chi ne ha scritto e tirato fuori i vari passaggi che, altrimenti, sarebbero naufragati nella “normalità” e nel silenzio. Un apprezzamento per il suo coraggio e per il suo auspicio: “questa storia la voglio raccontare perché non succeda a nessun altro quel che è successo a me, ma so anche che sino a quando non ci sarà un cambiamento epocale nel nostro sistema giudiziario, questo non potrà mai accadere”.
Marta Gentili: “Il raglio e l’asino” - IOD edizioni - 2022