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Un pizzico di glasnost sulla questione ucraina
“Un mestolo d’acqua fa un secchio di fango”
(Proverbio russo)

Chiunque abbia mai aperto un libro di storia della Russia, sa che mancano poche settimane alla rasputitsa. La stagione del fango, che due volte l’anno, in marzo e ottobre, sommerge le pianure con una melma densa come melassa.
Non è una semplice curiosità climatica.
Fu la rasputitsa, nel 13° secolo, a impedire la conquista mongola. Quattro secoli dopo, causò a Napoleone più perdite del famigerato Generale Inverno. Nel 1941, infine, fermò una Wermacht ormai alle porte di Mosca.
Solo un pazzo inizierebbe una guerra in queste condizioni, specie in una zona come il bacino del Dnepr, quarto fiume europeo per lunghezza e terzo per portata. A meno che non sia convinto di sistemare la faccenda in pochi giorni.
Le forze armate ucraine dispongono di un’aviazione e di una marina quasi inesistenti. Un centinaio di caccia risalenti alla guerra fredda, la cui effettiva disponibilità risente della carenza di ricambi e manutenzione e una fregata leggera, attualmente in bacino per lavori. Scarse o nulle le capacità in termini di difesa antiaerea a medio e lungo raggio, di guerra elettronica e di operazioni in ambito cyber. Quanto all’esercito, nonostante una grande e obsoleta componente blindata, conta circa 150mila unità tra professionisti e richiamati, con molti dubbi in termini di addestramento. Per quanto numericamente rilevante, non resisterebbe in uno scontro in campo aperto, contro un nemico in possesso della più totale superiorità aerea.
Dall’altro lato, il Cremlino, ha messo in mostra i gioielli della corona. La 1° armata corazzata della Guardia, preziosa riserva strategica usualmente stanziata a Mosca, e la 150° divisione di fanteria motorizzata, unità benemerita e pluridecorata nella II Guerra Mondiale.
Oltre a queste due formazioni d’élite ci sono quelle schierate a est, nel distretto di Rostov e a nord, nella compiacente Bielorussia. Queste ultime provenienti dal distretto di San Pietroburgo. Un dispositivo che, a seconda delle stime, varia tra i 200 e i 350mila uomini. A cui vanno aggiunti i circa 70mila dello Spetsnaz, contrazione di Vojska spezial'nogo naznačenija (forze per incarichi speciali) deputati all’infiltrazione e al sabotaggio, nelle prime 48-72 ore, dei gangli vitali del nemico.
Numeri imponenti, almeno sulla carta, ma insufficienti allo scopo. Mosca non può permettersi una guerra lunga, per motivi sia diplomatici che economici. L’unica opzione possibile sarebbe quella di una vittoria in tempi brevissimi, che metta la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto.
Alla luce di quanto esposto sui rapporti di forze, è verosimile pensare che il governo ucraino concentrerebbe la resistenza nei centri abitati, adottando su larga scala il modello Stalingrado. Una guerra da topi, dove ogni superiorità tecnologica viene annullata e si combatte da una stanza all’altra dello stesso appartamento. Aggiungiamoci la rasputitsa, le pessime strade ucraine e, cosa non da poco, la presenza di 4 centrali nucleari attive e funzionanti, oltre a quel che resta di Chernobyl. Uno scenario in cui entrare in punta di piedi, che ben poco si presta ai blitzkrieg rapidi e vittoriosi.
Per occupare l’Ucraina (600mila km², con una quarantina di città tra i centomila e i due milioni di abitanti) ci vorrebbe una forza molto superiore a quella attualmente schierata ai confini. Perfino l’intero esercito russo, all’incirca 800mila uomini, forse non basterebbe allo scopo. Nell’assurda idea che, pur di avere l’Ucraina, Putin possa sguarnire ogni angolo del paese.
Anche limitando la penetrazione alla sola parte orientale, quella compresa tra la frontiera e il fiume Dnepr, per farne una sorta di cuscinetto anti-Nato, si troverebbe di fronte a costi di occupazione insostenibili, per un’economia che viaggia tra il 7 e l’8% di inflazione annua.
Quanto alla tanto sbandierata minoranza russofona, concentrata in gran parte nell’area di Kharkiv, vicino al confine, è tutto da dimostrare che possa avere il ruolo di quinta colonna in un ipotetico conflitto. Russofono non vuol dire automaticamente russofilo e l’esperienza del 2014, in cui questa specifica minoranza è rimasta passiva, dovrebbe dirci qualcosa al riguardo.
Restando al 2014, ogni paragone con l’occupazione della Crimea tralascia dei fatti essenziali. Al di là di referendum più o meno legali, la maggioranza della popolazione era di etnia russa (58%) con un’ampia minoranza tatara (12% circa). A fronte di un 24% di ucraini.
La stessa Crimea poi, è dichiaratamente russa da almeno tre secoli e, con alterne vicende, fin dall’anno Mille.
È il nome simbolico di Sebastopoli, città assediata e contesa in ogni possibile guerra. La terra dove la nomenklatura imperiale prima, e comunista poi, edificò dacie e castelli per la villeggiatura.
Solo l’arbitraria volontà di Nikita Chruščëv, nel 1954, ne dispose l’annessione, allora meramente formale e amministrativa, alla Repubblica Socialista Ucraina. In Crimea, insomma, Putin giocava in casa.
Altrettanto non può dirsi dell’Ucraina dove, nel 1941, i contadini dei villaggi accolsero i nazisti con la tradizionale offerta di pane, sale e semi di girasole, nella speranza che li aiutassero a liberarsi del giogo di Mosca.
L’unica conclusione possibile è che, al momento attuale, la Russia ha certamente le necessarie capacità, belliche e tecnologiche, per distruggere l’Ucraina, polverizzarla e ridurla a una distesa di ceneri radioattive. Ma non ha quelle numeriche, logistiche ed economiche per conquistarla e soprattutto mantenerla a dispetto di sanzioni economiche e conseguente isolamento diplomatico.
Tra le molte cause dell’implosione del regime sovietico, pochi lo ricordano, ci fu senza dubbio l’invasione dell’Afghanistan. Operazione alquanto avventata sul piano strategico, che provocò solo ingenti perdite economiche e di vite umane. Sulle circa 600mila unità impiegate in dieci anni di occupazione, si registrarono 26mila morti, 53mila feriti e più di 400mila ammalati, per patologie dovute alle scarse condizioni igieniche.
Cosa ancora più importante, la guerra afghana provocò nella società sovietica fenomeni come la droga (nel mondo giovanile) e una sorta di reducismo nichilista. Grazie al quale ogni famiglia poté apprendere, dalla viva voce di un figlio o di un nipote, i fallimenti, gli intoppi e i disfunzionamenti di un apparato elefantiaco e ormai prossimo al collasso. Facendo le debite proporzioni, l’Afghanistan è stato un po’ il Vietnam dell’Urss.
Una lezione troppo recente, per essere dimenticata dall’attuale establishment russo. Basti guardare alla recente gestione della vicenda siriana.
Dove accanto all’uso disinvolto, e per certi aspetti innovativo, del supporto aereo e navale all’antico alleato Assad, vi è stato un uso molto prudente delle forze terrestri, limitato ai soliti consiglieri. Lasciando in definitiva che fossero le milizie locali a scannarsi reciprocamente, con gran risparmio di denaro e consenso interno.  
Più o meno ottant’anni fa, i giornali europei titolavano se valesse la pena morire per Danzica. Oggi qualcuno si chiede se valga la pena morire per Kiev. Come se esistesse, da qualche parte, un giusto o valido presupposto, territoriale, morale o religioso, per bombardare e uccidere.
La verità è che stiamo discutendo, da settimane, di una guerra impossibile. Una crisi costruita a freddo. Prova ne sia l’invio americano di un contingente di ottomila uomini. Che, nel contesto appena descritto, ha lo stesso impatto di un vigile urbano spedito a Waterloo, in soccorso di Napoleone.
Una crisi che ha la sua prima ragione d’essere nella debolezza interna del presidente Biden e nell’illusoria convinzione che agitare una crisi all’orizzonte possa incrementare i consensi nelle elezioni di medio termine.
La seconda nella tradizionale rozzezza e carenza di lungimiranza della diplomazia americana, che guarda l’Ucraina, ma vede Taiwan. Pensando che cedere sulla prima, implichi manifestare debolezza sulla seconda. Ottenendo come involontario, ma istruttivo sottoprodotto, di avvicinare ancora di più Mosca a Pechino.
E la terza, last but not least, in una tradizionale e sostanziale forma di ignoranza. Si è sempre lamentato che gli europei non comprendano gli Stati Uniti. Se è così, si tratta di un sentimento reciproco, perché gli americani non capiscono l’Europa.
La loro diplomazia, spesso affidata non a funzionari di carriera, ma a grandi elettori presidenziali ricompensati con una prestigiosa ambasciata, ne ignora storia e tradizioni. Ancor di più ignora, fin dalla guerra fredda, la paranoia russa dell’accerchiamento. Un timore atavico, presovietico, risalente al tempo degli zar.
Gli Stati Uniti, paradosso dei più assurdi, non riescono a tollerare un impoverito regime cubano a 600 km da Miami, ma vorrebbero portare la Nato a 7 ore di autostrada da Mosca.
Pur cambiando attori e location, è il rudimentale canovaccio di un (pessimo) film già visto.
Nei primi anni del ‘900, il complesso mélange di sottovalutazioni, sbruffonerie, propaganda e incapacità messo in piedi dalle grandi potenze, trasformò l’Europa in un gigantesco campo minato.
Così intricato e sensibile, che per farlo esplodere bastò un semplice colpo di pistola.

In foto: lo scrittore, Alessio Pracanica

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