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I numeri ufficiali sono però solo la punta dell’iceberg, su 100 reati solo 35 vengono denunciati; quindi, parliamo almeno di un numero di casi compreso fra i 300 e i 500

Il balletto dei conti (che non tornano mai) lo conferma: il mondo dello sport è abitato da più “santi” che nicchie! Se a inizio anno a scoperchiare l’imbarazzante vaso di Pandora ci pensò l’eminentissimo Impunità di gregge, il primo libro-verità che versò torrenti di parole implacabilmente cascanti sulle inconfessate storie di violenza, abusi e body- shaming connesse al mondo dello sport, oggi a salutare il 2021 e l’Italia degli impuniti è invece il podcast No Coach. La serie-audio d’inchiesta co-prodotta da Gli Ascoltabili e ChangeTheGame e targata Daniela Simonetti (autrice del libro nero con prefazione di Marco Travaglio), arriva per render giustizia a quei volti e a quei nomi che, per troppo tempo, sono rimasti prigionieri delle stanze buie, calcestruzzo di omertà, dell’establishment sportivo.

Più forte dello schermo, la voce narrante, perfetta per la cronaca recente, o meglio, per una cronaca fino a oggi mancata, è quella della giornalista e influencer Alessia Tarquinio, la quale racconta insieme ad alcune personalità e a diversi “sopravvissuti” che cosa succede dietro alle porte sbarrate dello sport.

A smascherare i vizi numerici di questo horror picture show è la stessa Simonetti, alias “Lady di ferro” che, a pugno duro, tira le reti di anni di indagini. Ci dice: «I dati ufficiali parlano di 86 casi censiti dalla Procura generale del CONI dal 2014 al 2019 e fra i 20 e i 40 processi all’anno avviati dalla magistratura ordinaria (che si concludono regolarmente con pene detentive dai 3 ai 6 anni) a carico di tecnici, dirigenti, accompagnatori regolarmente tesserati i quali però girano a piede libero come se nulla fosse accaduto. Per loro è facile riciclarsi essendo esentati dall’obbligo di presentare il certificato penale. Inoltre, quasi tutti i radiati e i sospesi per abusi e violenze lavorano grazie ad amicizie e connivenze. I numeri ufficiali sono però solo la punta dell’iceberg, su 100 reati solo 35 vengono denunciati; quindi, parliamo almeno di un numero di casi compreso fra i 300 e i 500».   

Ma quanto vale la vita di un bambino? «A giudicare dal comportamento di molte federazioni e del CONI, poco o niente; del resto, nel contesto sportivo vige la regola del silenzio che copre tutto per il timore di sporcare una facciata già incrinata da altri scandali e vergogne», conclude piccata l’anima fondatrice e pulsante dei cinque episodi serie-audio.

Dal canto loro gli abusati, eternamente ammaestrati a declassare la forza della verità a un gargarismo che mai deve essere emesso, non vogliono più tacere e si raccontano per la prima volta. Qualcheduno decide di farlo persino fuori podcast. È il caso di Daniele, 18 anni, ginnasta dall’età di 8: «A volte pensiamo che ciò che amiamo ci faccia male, ma se solo imparassimo a guardare lo sport con un occhio diverso, forse, riusciremmo a cambiarlo».

Il giovane tenta di rompere i meccanismi omertosi di questo mondo ostile cercando di aprire gli occhi alla solita claque di fedelissimi che pende dalle labbra di uno o più vecchi depravati dall’anima noir. E lo fa senza lasciar spazio a interpretazioni di sorta: «Sapete perché gli abusi sportivi hanno vita facile? Perché i presidenti delle federazioni sono tutti maschi. Volente o nolente mai nessun uomo, me compreso, è stato educato a riconoscere la violenza». Le parole di Daniele scavano solchi: «Alla fine si parla sempre di potere e di qualcuno che vuole affermare la propria superiorità ed egemonia sui corpi di altre persone; d’altra parte, un bambino non avendo la forza né di imporsi né tantomeno di reagire è facilmente controllabile. Lo sport è un calco del sistema che abbiamo fuori».

Con buona pace del galateo sportivo (e dei galateisti), a raccontare e a raccontarsi sono pure Greta e Irene. Le testimonianze delle due diciottenni sono state decisive per l’arresto del presidente di una ASD nel casertano. L’accusa è violenza sessuale su 7 bambine dai 9 ai 13 anni. «Ci siamo dovute far forza l’un l’altra. Non ci è stato vicino nessuno, anche durante il processo» confessa Greta, mentre passa la palla dell’ignominia all’amica. «Spesso mi chiedono perché ho smesso di fare equitazione. Non so se è peggio sentirsi fare questa domanda oppure quella legata al perché io abbia continuato a restare in quel posto per così tanti anni».

Ma un quesito sorge allora spontaneo: il passato di questi ragazzi si può cancellare? La risposta, con il dolore di chi non ha capito in tempo la propria condizione di vittima, la dà Vincenzo: «Ci ho messo 20 anni prima di denunciare. Nel frattempo, ho perso la purezza, la famiglia, l’amore e l’amicizia, ma sto comunque cercando di ricostruirmi una vita. La passione per il calcio? Non l’ho mai persa e forse è stata la mia più grande condanna, perché oggi faccio l’allenatore. Alleno bambini di 11 anni, l’età in cui tutto è cominciato».

In conclusione No coach è il pungolo che frantuma il silenzio e, come tale, neppure il suo leitmotiv poteva peccare di silenzio. Ragion per cui si informa che, al momento, la sigla, per sua opportuna conoscenza, vive, respira e danza all’unisono lungo tutto lo Stivale, grazie al testo e alla voce di Giovanni Long, survivor doc e anche un po’ rock: «Dopo quello che mi è successo ho smesso di fare sport, ma ho avuto l’enorme fortuna di aggrapparmi alla musica e alla scrittura. Nel mio brano Solo, dico: siamo ammalati di umanità. È vero, e spero di non guarire mai da questa “malattia”!».

Insomma, la chiamano “pandemia ombra”, eppure vederla alla luce ora è facilissimo.
(12 Dicembre 2021)

Tratto da: pensalibero.it

Per ascoltare il podcast: clicca qui!

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