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Era una grande mente, non solo un cristiano devoto e oggi un santo.
Il giudice Rosario Livatino - assassinato dagli stiddari il 21 settembre 1990 - da Agrigento, da una posizione considerata provinciale rispetto a Palermo nel contrasto alle mafie, invece aveva capito e compreso molto bene il ruolo mondiale di cosa nostra e i suoi agganci con la ‘ndrangheta. Agrigento in realtà era per i boss l’autostrada che conduceva ai centri di potere internazionali. Bisogna oggi restituire a Rosario Livatino la sua vera dimensione: quella europea.
Per Speciale Tg1 ‘Un uomo giusto’, andato in onda su RaiUno il 20 settembre 2020, indagando, ho scoperto e documentato per la prima volta dopo trent’anni dal suo omicidio, un inedito, la collaborazione tra Livatino, Falcone e Borsellino. Una rivelazione ripresa in prima pagina dal Fatto Quotidiano con un articolo di Giuseppe Lo Bianco, notizie rilanciate anche dal professore Nando Dalla Chiesa, il primo a dedicare un libro-inchiesta a questa giovane toga insanguinata dai killer della Stidda.
Ci furono altri mandanti oltre a quelli condannati? Rimane una domanda aperta.
Il magistrato Rosario Livatino presta giuramento in magistratura il 18 luglio 1978, pochi mesi dopo il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, negli anni della mattanza di magistrati, forze dell’ordine, giornalisti, politici. Rosario è consapevole di entrare con la toga in un campo minato. Scrive nella sua agenda: “Iddio mi aiuti”.
In soli dodici anni di operatività giudiziaria, diventa un obiettivo per la mafia. Perché? Non era conosciuto, era estremamente riservato, non amava mostrarsi, eppure in dieci anni come Sostituto Procuratore della Repubblica di Agrigento (due anni alla giudicante delle Misure di Prevenzione), diventa la punta di diamante di quell’Ufficio, mette in piedi un pool di quattro magistrati, insedia una sezione di polizia giudiziaria, prima non si indagava…
Tra il 1985 e il 1986 incontra più volte Falcone e Borsellino, con il suo collega Salvatore Cardinale - come dimostrano anche le agende -. Testimonia per la prima volta Salvatore Cardinale a Speciale Tg1: “Ci furono diversi scambi di informazioni e di documenti, andammo a trovare Borsellino che ci diede documenti sulla mafia di Agrigento e noi portammo un nostro documento giunto dal Canada (ndr le intercettazioni di Paul Violi a Montreal) in cui si delineava la struttura della mafia prima ancora che Buscetta ne parlasse. Confermava, il documento quello che  Buscetta aveva detto poi. E così vennero fuori i rapporti della mafia siciliana con la mafia calabrese, con la mafia di Montreal. Il boss Settecase a Montreal incontrava i mafiosi di là, e poi andava in America e incontrava Castellano. In queste trascrizioni di intercettazioni si parlava dei nuovi capimafia”.
Rosario Livatino, in realtà è il Giovanni Falcone di Agrigento, fa la spola con Palermo, interroga boss di primo piano della cupola.
Le intercettazioni di Paul Violi diventano uno dei pilastri del primo maxiprocesso contro cosa nostra. Se la stidda e cosa nostra in quegli anni si fanno la guerra, con l’omicidio del giudice Livatino in realtà tutte le mafie saldano i propri interessi e la stidda - a mio parere - sembra offrire un braccio armato a garanzia di tanti e complessi interessi.
Rosario Livatino, con un altro collega, incontra il giudice Carlo Palermo al palazzo di giustizia di Trapani, alcuni mesi prima dell’attentato e della strage di Pizzolungo, il 2 aprile 1985. Livatino chiede a Carlo Palermo di quella sua inchiesta sul traffico di armi e sulla triangolazione: vuole saperne di più. Vuole capire il metodo di indagine ma vuole ascoltare e approfondire quegli interessi sporchi internazionali. Elabora. Mette insieme tanti pezzi di un mosaico. Gli anni più caldi sono questi.
Rosario mette a punto le sue informazioni, le indagini. Il colpo è avere consegnato a Falcone e Borsellino le intercettazioni di Violi, che erano state ‘dimenticate’ in un cassetto della Questura di Agrigento. In quelle intercettazioni, il racconto dei boss che andavano a Montecitorio a trattare i propri affari, in quelle trascrizioni i rapporti tra mafia e politica. Rosario Livatino sa che le mafie non sono un racconto di coppole storte ma di colletti bianchi e politici prezzolati a braccetto con la massoneria.
Livatino è contrastato da un procuratore che il caffè coi mafiosi del suo paese, lo prendeva sul serio. Indaga sui cavalieri del lavoro di Catania, scopre coi suoi colleghi del pool, la tangentopoli siciliana fino ad arrivare al primo maxiprocesso di Agrigento, denominato Santa Barbara, il 23 luglio 1987: centinaia di anni di carcere colpiscono i boss per la prima volta nella storia, perché prima avevano agito indisturbati.
Guardate le immagini del maxiprocesso di Agrigento: la violenza verbale e fisica che emerge per reazione dalle sbarre, fa paura, il giudice quasi stenta a leggere la sentenza, perché interrotto da urla e gesti violenti. Quelle toghe sole davanti ai carrarmati degli intrecci mafiosi. Sono le stesse immagini che vedremo alcuni mesi più tardi, il 16 dicembre 1987 al maxiprocesso di Palermo contro i capi di cosa nostra, 19 ergastoli, 2665 anni di carcere.
Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Rosario Livatino e tante toghe integerrime, non ci sono più. Rimangono semi. A noi onorarli. Prima di tutto con l’accertamento della verità, ma lasciando anche ai giornalisti la libertà di indagare, quella libertà spesso ostacolata.

Tratto da: liberainformazione.org

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