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11 aprile 2021 - È il marzo del 1990, siamo a Roma, in una chiesetta dentro villa Celimontana, una piccola e deliziosa oasi di verde nel cuore della città, a ridosso del Colosseo. Un piccolo e gioioso corteo di macchine si ferma sotto le scalinate della chiesa per far scendere gli invitati, pochi ma, come da tradizione, eleganti e sorridenti. Poi arriva finalmente la sposa, emozionata. Più emozionato della sposa c’è però il suo accompagnatore; non è il papà, che non c’è più, è il fratello, è Umberto, è venuto apposta da Opera, da Montanaso Lombardo per la precisione, assieme alla compagna Armida e alla figlia Daniela. La cerimonia è veloce e le emozioni intense, talmente intense che serve tutta la baldoria e l’allegria dell’interminabile pranzo nuziale per stemperare lentamente la commozione e trasformarla in felicità. È sera quando Umberto si rimette in macchina per tornare a Montanaso. Armida siede al suo fianco, è stanca, le emozioni stremano. Daniela addirittura si è addormentata sul sedile posteriore, è una bambina bellissima. Prima di partire, Umberto scende dalla macchina per un ultimo saluto al fratello. Un abbraccio e poi gli fa scivolare una lettera nella tasca della giacca: “...la devi aprire non prima di trent’anni, è la mia storia, quella vera e non quella che fa comodo raccontare. Devi farla leggere a chi pensa che, gridare il nome di una persona in mezzo alla gente, renda magica l’esistenza di quella persona, solo perché si è strillato forte, perché a strillare sono tanti, perché quel nome l’ha scelto una persona degna. Beh, le persone devono sapere che la magia non sta nel nome, è la storia di quella persona, è la storia vera e solo quella a determinare se quel nome va gridato o no. Ed è quello che ti consegno...”.

Di anni ne sono passati 31, quella lettera può essere aperta e...

Stefano Mormile



Mi chiamo Umberto Mormile, ho consegnato dei fogli bianchi in una busta sigillata a mio fratello, perché ho un brutto presentimento e, se dovesse succedermi qualcosa, mi impegno a riempirli della verità, tutta la verità, nient’altro che la verità. Perciò, se mi sbagliassi e, magari non mi succede niente, a parte queste poche righe, non leggerete altro. Oppure…………

Oppure …………. ho 36 anni, una bellissima figlia di dieci anni che, purtroppo, vedo raramente perché vive in un’altra città assieme alla mamma, dalla quale mi sono separato da alcuni anni. Adesso vivo con Armida, una donna tosta, tostissima. Faccio l’educatore carcerario, lavoro ad Opera e mi piace. Anche Armida lavora nel settore, lei è direttore al carcere di Lodi. Il nostro è un lavoro impegnativo, di quelli che non dispongono di interruttori per mettere in pausa il cervello. La mia vita, la nostra vita, è pervasa dal carcere e dai casi che trattiamo. E’ faticoso, ma bello, intenso. Serve professionalità e tanta personalità, altrimenti vieni travolto.

A me piace anche per un’altra ragione, si lavora in squadra, educatori, guardie, direttori, specialisti, tutti compatti e sinergici per tutelare noi e il nostro lavoro. Perché noi rappresentiamo lo Stato, le regole, e non possiamo portare messaggi e comportamenti obliqui.

Anche stamattina, mercoledì 11 aprile 1990, mi sto recando al lavoro. È una giornata tipica di queste zone, foschia e pioggerella. Malgrado tanti anni passati al nord, non mi abituo mai, quanto rimpiango il clima di Roma. E poi il traffico, sempre uguale, tutti incolonnati diligentemente, mai un bel mucchio selvaggio con colonna sonora di clacson coordinati. Mi permetto queste divagazioni, perché tra due giorni arrivano mio fratello con la famiglia e, soprattutto, viene mia figlia, per passare Pasqua assieme. Questi giorni, poi, anche in istituto si respira un clima particolare, soprattutto con la “compagnia”; scusate, ho preso l’abitudine di chiamare “compagnia” il gruppo di detenuti che sta seguendo il corso di teatro. Al teatro ci tengo, mi piace tantissimo, più della lirica che pure adoro. Il teatro l’ho portato dentro il carcere, da sempre, e non mi ha deluso. Chi vive in cattività ha bisogno di sognare, di emozionarsi, di uscire dalla propria condizione e vivere. Il teatro sembra fatto apposta per i detenuti e così è stato finora. Adesso stiamo preparando ‘Il mercante di Venezia’, di Shakespeare e oggi proviamo il monologo di Shylock. Certo, il carcere schiaccia, soffoca, ma quelle due, tre ore a settimana sono attese da tutta la “compagnia” come il momento del riscatto, e spero e credo che, quelle emozioni vissute, saranno assorbite da ognuno di loro.

Intanto sto sempre incolonnato, con questo semaforo che dura niente, è di nuovo rosso; mi devo decidere a comprare una moto, come quella che sta risalendo tutta la fila e……., ce l’ha con me ?, che vuole, che c’ha nella mano, cazzo è una pistola. …. bum, bum, bum, bum, bum, bum…….

Ecco, è andata così, non me l’aspettavo, ho persino messo la mano davanti per fermare i proiettili, neanche fossi Nembo Kid. È finita così, quella mattina dell’11 aprile 1990 è finita la mia vita.

Finita? Sono morto, ma non abbastanza per chi ha mandato quei due a farmi fuori, a loro serve cancellarmi dalla storia. E come si fa? Non sono un disegno a matita su una pagina di un libro che basta strofinare con la gomma per farlo sparire e nemmeno strappare la pagina risolve. C’è un altro sistema però, molto efficace, che conoscono bene i miei assassini: non cancellarmi dalla storia, ma scrivere un’altra storia. E così fanno. Neanche il tempo di seppellirmi e inizia il tiro al bersaglio sul mio corpo, sulla mia memoria. Ma andiamo per ordine, avete un po’ di tempo? (io ne ho all’infinito, se occorre, ve ne cedo un po’…), mettetevi comodi che vi racconto.

Tanto per non tenervi sulle spine (non è un giallo, purtroppo…), fisso le cose certe. Ad ammazzarmi, sono stati i due in moto, Antonino Cuzzola e Antonio Schettini. Il primo guidava e il secondo ha sparato. Entrambi hanno confessato e sono stati condannati in via definitiva, talmente definitiva che, almeno per quanto riguarda Schettini, è già uscito per buona condotta (sicuro, uno che ha ucciso ben 59 persone, compreso me, basta che sta qualche anno senza uccidere perché impossibilitato a farlo, e si può considerare recuperato per la società…). La giustizia si è espressa pure sui mandanti che ha smascherato in Antonio e Domenico Papalia, fratelli di Platì nonché affermati boss della ‘ndrangheta. Il movente del delitto, secondo i giudici, sono due! Perdonate il bisticcio lessicale, ma è necessario per capire il bisticcio giudiziario. Dunque, secondo i giudici sono stato ammazzato perché, corrotto dai Papalia, sono venuto meno a un impegno preso con loro per il quale mi avevano pagato profumatamente. Ma, sempre secondo gli stessi giudici, sono stato ammazzato, su ordine dei Papalia, perché incorruttibile e, per giunta, pericoloso per i loro affari in quanto minacciavo di denunciarli.

Chiaro no? La sentenza si ferma lì, esecutori, mandanti criminali e un doppio contraddittorio movente. Oltre non si è andati, o, come dico io che, come morto, non posso mentire, non si è voluti andare. Allora è giusto e necessario che vi racconti cos’è accaduto in questi trent’anni, ma parto dalla fine, dal movente che è uno e uno solo.

Sono stato ucciso perché ho capito che anche al carcere di Opera avvenivano incontri proibiti tra boss e servizi segreti, come mi era già apparso evidente al carcere di Parma, quando lavoravo lì anni prima. Né a Parma né a Opera avevo assistito o visto direttamente questi incontri ma, appena avuto il sospetto di ciò, non mi era stato difficile raccogliere informazioni più profonde e capire che non solo era vero, ma gli incontri erano piuttosto frequenti e chiaramente, coperti da personale compiacente.

Ma le prove non le avevo, non ancora, e per questo avevo preferito non divulgare questo fatto almeno fino a quando non avessi raccolto qualcosa di concreto. Poi, il trasferimento a Opera mi fece perdere di vista la questione, fin quando non accadde di nuovo. Ora, bisogna sapere che, per incontrare detenuti, addirittura boss in regime di alta sicurezza, occorre l’autorizzazione del giudice, per chiunque, anche a un agente dei servizi segreti. Gli incontri avvenivano invece in tutta clandestinità, nessuna autorizzazione e nemmeno la registrazione all’ingresso di queste persone che entravano come fantasmi, senza lasciare tracce. Evidentemente, una parte del personale copriva questi incontri, era complice. Ma non basta, la cosa ancora più grave era che i boss che s’incontravano con questi personaggi, ottenevano poi dei benefici carcerari. Per loro si attenuavano regole e regime carcerario e, soprattutto, gli venivano concessi permessi premio che consumavano tranquillamente fuori. Capite ora la gravità. Io cercavo le prove per denunciare tutto, ma poi ho commesso un errore da pivellino che, credo, m’è costata la vita. È successo qualche settimana fa, forse un mese o due, non ricordo bene, fatto sta che un detenuto che seguivo, che aveva fatto domanda per avere un permesso premio, incontrandomi alla rotonda della sezione del carcere mi scaricò la sua delusione e frustrazione per essersi visto negare il permesso che pensava di ottenere.

“A me lo negano, cazzo ! Però Domenico Papalia in permesso ci va!”

“E tu non fai i colloqui con i servizi…”

Ecco, m’è proprio scappato, sapete, quando vieni preso alla sprovvista, stai pensando ad altro e non realizzi subito il contesto. Un imbecille totale! Il tizio aveva cominciato a incalzarmi su quella mezza parola, io, capito l’errore, ho subito svicolato, ho prima negato e poi fatto intendere che fosse una battuta. Ma evidentemente la frittata era fatta. Il secondo errore che ho commesso è che non ho più pensato a quell’episodio, altrimenti avrei intuito il potenziale pericolo per me e, magari, quei due motociclisti non mi avrebbero sorpreso così facilmente. Chissà. Fatto sta che quella piccola ammissione ha fatto immediatamente scattare l’allarme. Quella pratica indecente, i “colloqui privati” tra boss e servizi, andava assolutamente preservata, non si poteva correre il rischio che un educatore qualsiasi la svelasse. Già, perché i soggetti coinvolti non erano solo i Papalia e i servizi, c’era un sistema di potere in Lombardia che negli anni a venire verrà conosciuto come “Consorzio” o “Anello”, costituito dai boss delle organizzazioni criminali, come i Papalia per la ‘ndrangheta, quelli di mafia, camorra e Sacra corona unita, ma c’erano pure i referenti degli apparati di sicurezza dello Stato, i referenti del mondo degli affari, probabilmente anche quelli della politica. Vi riporto lo stralcio di una sentenza che, tra le altre cose, descrive il Consorzio, “Un grumo di interessi politici ed economici attorno a cui ruotano servizi segreti deviati, massoni vicini a Gelli e organizzazioni criminali”.

Insomma, è il Consorzio che autorizza i Papalia a intervenire, e i fratelli sono bravi, non perdono tempo e incaricano gli esperti Schettini e Cuzzola, che eseguono. E siamo tornati a quel mercoledì mattina. Schettini mi ha scaricato l’intero caricatore, sono morto, è ufficiale, non posso più raccontare a nessuno dei miei sospetti e tuttavia ci potrebbe arrivare qualcun altro, soprattutto adesso che devono indagare a fondo sull’omicidio efferato di uno stimato educatore, magari qualche investigatore della procura solleva qualche velo e… Ecco perché ammazzarmi non basta, bisogna allontanare gli inquirenti e i giornalisti da ogni possibile pista che possa condurre al movente, occorre intorbidare, depistare, creare diversivi efficaci. Del resto, il Consorzio serve proprio a questo, a decidere le cose delicate, importanti e trovare le giuste soluzioni ai problemi. Nasce così la “Falange Armata carceraria”, la fantomatica sigla pseudo terroristica che fa la sua prima comparsa con una telefonata all’Ansa di Bologna quell’11 aprile 1990 : “A proposito di quanto è avvenuto a Milano, il terrorismo non è morto. Vogliamo che l’amnistia sia estesa anche ai detenuti politici. Non importa chi sono. Ci conoscerete in seguito”.


mormile umberto sguardo


Serviva un diversivo, eccolo servito, una ghiotta pista terroristica per tenere lontano dal carcere i ficcanaso. Quella telefonata, quell’intuizione quasi casuale di qualcuno del Consorzio, verrà poi mirabilmente sfruttata negli anni a seguire. La Falange Armata, depurata dell’attributo carceraria, diverrà l’organo di comunicazione del Consorzio, anzi, dell’intero sistema di potere. A quella rivendicazione seguiranno centinaia tra telefonate, comunicati e proclami. Non solo a rivendicare stragi e fatti di sangue, talvolta per anticipare strategie poi puntualmente attuate, tal altra a mandare messaggi trasversali. Insomma, la Falange Armata ha attraversato la storia di questo Paese, direi gli anni più bui della Repubblica, accompagnandola fin quando, nel ’93, i piani non sono stati completati e il nuovo sistema di potere si è saldamente assiso nei gangli vitali di questa nazione. Missione compiuta, bombe, stragi, uccisioni, depistaggi, attentati, minacce, corruzione hanno chiuso la partita e l’organo di stampa poteva essere messo a riposo. Ma non sono qui per parlarvi della Falange Armata, era giusto raccontarvi com’è nata, perché mi riguarda, poi la storia della Falange Armata resta ancora oggi sommersa nella palude dei misteri italiani, quelli che non sono misteri, piuttosto, non si vuole conoscere.

Andiamo avanti; la pista terroristica è servita poco, perché, malgrado il rimbalzo sulla stampa nazionale, alla procura di Lodi ci stanno investigatori capaci che, pur non tralasciando nulla, concentrano la loro attenzione sul carcere di Opera, convinti che le informazioni giuste sono là dentro.

Il Consorzio si rimette in moto. Stavolta l’azione è su più fronti: attacco alla mia persona richiamando torbide vicende avvenute a Parma, quando ancora lavoravo lì. La vicenda non mi riguardava minimamente, era una brutta storia di corruzione che coinvolgeva il direttore, un paio di guardie e alcuni detenuti. Non sarebbe stato difficile smontare quelle calunnie, ma la potenza della maldicenza è tale che, una volta fatta girare la voce, la suggestione coglie tutti, anche il personale che ha lavorato fianco a fianco con me e che ben conosceva la mia inattaccabile onestà. Poi c’è la fascinazione del movente passionale, un evergreen, che ha colpito Beppe Alfano, Antonino Agostino e tante, tantissime vittime. Non funziona in assoluto, ma la divagazione fa guadagnare tempo e, si sa, il tempo è tutto per l’accertamento della verità. Infine, le azioni più incisive per evitare qualsiasi indagine a Opera: trasferimenti massicci di personale e detenuti per allontanarli dalla scena, impedire agli investigatori di accedere alla struttura per perquisire e requisire materiale e documenti che, non si sa mai…… In ultimo, l’atto decisivo: trasferire gli investigatori che così bene si stavano muovendo. Amen.

La Procura di Lodi non indaga più, addirittura prova ad archiviare il caso. Ma c’è Armida Miserere, la mia Armida, che da sola fa da sostituto procuratore, da nucleo investigativo, da chiromante quando serve, e indaga, cerca e inonda la Procura di fatti, ipotesi, intuizioni, suggerimenti. Tutto vano, nessuno l’ascolta, nessuno vuole correre il rischio di aprire il vaso di Pandora delle carceri. Non possono archiviare ma è come se l’avessero fatto. Del resto, anche i media hanno smesso di interessarsi a me, ci sono ben altre notizie, c’è Gladio che è stata svelata, c’è la Uno Bianca che inizia a terrorizzare. Certo, a un giornalista attento non sarebbe sfuggita la scia tracciata dalla Falange Armata, che, da me, tocca tutti quei fatti e molti altri ne toccherà; ma i giornalisti dell’epoca, e quelli di adesso, fatta salva un minuscola rappresentanza, non hanno tempo e voglia di fare attenzione, se no vi pare che in trent’anni la mia storia debba scriverla io?

Torniamo a noi. Quando tutto lasciava pensare che il mio caso sarebbe stato chiuso nel cassetto, ecco che spunta un pentito di ‘ndrangheta, il primo pentito di quella organizzazione così granitica. Si chiama Saverio Morabito e le sue dichiarazioni dilagano nel processo “Nord-sud” che si sta celebrando a Milano, scoperchiando le straripanti infiltrazioni della criminalità al nord, in Lombardia soprattutto. Alla sbarra ci sono decine e decine di imputati, processati per una serie impressionante di delitti. Morabito sa tante cose e le racconta. Sa anche del mio omicidio, racconta anche di quello, anche se non dice molto. Basta però a quella Procura per avocare il caso. Così, quei faldoni polverosi, che contengono per lo più le relazioni di Armida e le copiose intercettazioni fatte a lei, a mio fratello, a tutti i miei amici e parenti, forse financo a mia figlia, vengono trasferiti a Milano. Si ricomincia.

E allora ricomincia pure il Consorzio che, per la verità, proprio fermo non era stato visto che si era dedicato a quella rompiballe di Armida: un po’ di minacce, avvertimenti, piccoli attentati e finte aggressioni, tanto per ricordarle che non erano dilettanti. Adesso però c’era da contrastare una nuova Procura e dei nuovi investigatori che, tra l’altro, si erano mostrati pure bravi. Niente paura, il Consorzio dispone di uomini e mezzi, di strumenti di distrazione di massa assai efficaci. Così Antonio Schettini, quello che mi ha sparato, si fa avanti. “Sono stato io, l’ho ammazzato su ordine di Antonio Papalia perché ha preso 30 milioni per concedere un permesso a Domenico e all’ultimo momento si è tirato indietro. Antonio s’è vendicato di quell’educatore che era a libro paga da anni, sin dai tempi di Parma”.

È giusto che vi renda partecipi di alcune cose; Antonio Schettini, quando decide di raccontare “spontaneamente” della mia uccisione, è già un pluriassassino accertato. Accusandosi del mio omicidio non aggrava la sua posizione giudiziaria, tutt’altro, entra nel sistema dei pentiti e ottiene per questo cospicui sconti di pena. Inoltre, e questo alla Procura non può sfuggire, Schettini è noto anche per la sua collaborazione stretta con gli apparati di sicurezza dello Stato e, soprattutto, la sua abilità nel depistare. E tuttavia la Procura certifica ogni parola di Schettini, non si prende nemmeno la briga di fare le verifiche, gli accertamenti patrimoniali sul flusso enorme di quattrini che da anni mi sarebbe arrivato dai Papalia.

A voler essere buoni, c’è da credere che i giudici volessero assicurare alla Giustizia almeno uno dei Papalia, anche a costo di accreditare un depistatore. Fatto sta che fu emessa una sentenza di condanna, lieve, per il solo Schettini per l’omicidio del corrotto e voltagabbana Umberto Mormile. Un capolavoro!

Meno male che Armida si risparmiò questa ignobile farsa, lei si era tolta la vita il 19 aprile 2003 o, forse, aveva ceduto alle “esortazioni convincenti” a togliersi la vita. Vi dovrei parlare di lei, di quello che era stata capace di fare e sopportare in quei 13 anni trascorsi a cercare di affermare la verità, la giustizia. Ma servirebbe scrivere un libro e so che non avete tempo, ve ne ho rubato fin troppo. Allora cerco di stringere, scorro rapidamente il resto della storia. Dopo la sentenza, Antonino Cuzzola, colui che guidava la moto nell’agguato, decide di raccontare tutto.

“…Mormile aveva raccontato che Domenico Papalia, allorché era detenuto a Parma, luogo dove aveva lavorato in precedenza lo stesso Mormile, beneficiava di incontri con persone ‘sospette’, a suo dire anche facenti parte dei servizi segreti, usufruiva di colloqui e permessi che non gli spettavano e insomma era un privilegiato per via di rapporti importanti che intratteneva con personaggi che non mi furono indicati…”

Ecco, siamo tornati al movente vero, quello che vi ho raccontato io. Adesso mi credete?

Cuzzola è un testimone attendibile, contrariamente a quanto fatto con Schettini, tutto ciò che dice viene passato al setaccio. E tuttavia, anche i giudici di appello non se la sentono di abbracciare in toto la verità di Cuzzola, forse perché li avrebbe costretti ad aprire inchieste scivolose sui servizi e sulla Falange Armata, magari anche su quell’ambiente oscuro delle carceri. No, meglio tenersi sul vago, in fondo anche qui il risultato minimo era la condanna di Domenico Papalia e andava bene così. Ecco quindi quella sentenza ambigua: sono stato ucciso perché onesto e disonesto, mi hanno ucciso i fratelli Papalia e non esistono consorzi né Falange armata. Amen amen.

In soccorso ai giudici erano arrivate nuove fantasiose (fantastiche direi) dichiarazioni di un altro cialtrone pseudo pentito, tale Emilio Di Giovine che, immagino su mandato del Consorzio, aveva rilanciato, ampliandole, le accuse di Schettini. Secondo Di Giovine, non solo ero a libro paga dei Papalia, ma ero un avido, non m’accontentavo mai, soldi, regali, persino una costosa macchina m’avevano dato. Ovviamente, malgrado le dichiarazioni “spontanee” rese da questo contraddittorio personaggio (tale lo era anche per la giustizia per le sue frequenti oscillazioni di verità), malgrado la totale assenza di riscontri (alcuni, come la macchina, erano davvero facili da fare, e non furono fatti…), fu creduto e, miracolo tutto italiano, nella sentenza d’Appello trovarono posto contemporaneamente le versioni rese da Schettini, Cuzzola e Di Giovine, tutte accettate malgrado facessero a cazzotti tra loro. Da lì la mia improvvisa crisi esistenziale: ma sono un corrotto o un incorruttibile? Non scherzate, non ci ho dormito per tutti questi anni…

Per fortuna, come diceva Eduardo, il tempo è galantuomo. Nel corso degli anni, sono emersi dei fatti inconfutabili, seppure soffocati nel segreto di stato, che hanno certificato come l’abitudine dei servizi di scavalcare le leggi ed entrare nelle carceri, fosse piuttosto frequente, al punto da sottoscrivere un protocollo, ovviamente segreto, con i vertici dell’amministrazione penitenziaria, il famoso Protocollo farfalla. Più di recente, sulla mia vicenda e, soprattutto, sul movente vero, sono intervenuti a più riprese e in maniera assolutamente convergente, alcuni pentiti che, ascoltati nell’ambito di altri processi (‘ndrangheta stragista e la trattativa stato mafia), hanno raccontato che……..,

«……Mormile, nonostante sia stato infangato come corrotto, venne ucciso perché rifiutò di fare una relazione compiacente a Domenico Papalia … Disse ad alta voce ad Antonio Papalia che lui “non era dei servizi”, alludendo ai rapporti fra Domenico Papalia e i servizi che pure erano veri ed esistenti … Proprio questo rifiuto con l’allusione ai servizi fu fatale per il Mormile … prima Domenico Papalia in carcere chiese il favore a Mormile, voleva una relazione addomesticata; Mormile rifiutò … Domenico comunicò la cosa al fratello Antonio in un colloquio dicendo al fratello di convincere il Mormile. Antonio … avvicinò il Mormile che si rifiutò di nuovo nonostante la promessa di 20 milioni dicendo che lui non era dei servizi … Domenico si preoccupò e deliberò l’omicidio … lo stesso Domenico Papalia … precisò anche che bisognava parlare con chi di dovere e cioè con i servizi … i servizi, dando il nulla osta all’omicidio Mormile, si raccomandarono di rivendicarlo con una ben precisa sigla terroristica che loro stessi indicarono…».

E allora brindiamo cari amici, ci son voluti trentuno anni, ma finalmente hanno consegnato la verità alla storia.

Siete sicuri ?

Umberto Mormile è stato ucciso perché non rivelasse ciò che accadeva nelle carceri. Ormai lo sanno tutti, i giudici, le istituzioni, i giornalisti. Ma non è il caso di ricordarlo, meglio evitare proprio di parlarne.

Meglio evitare di intitolargli un’aula di tribunale, come stava avvenendo, cancellando, all’ultimo, il suo nome, solo il suo tra i tanti decisi.

Vorrei raccontarvi tante altre cose, vorrei parlarvi di Armida Miserere, di Antonino Agostino e sua moglie Ida Castelluccio, di Paolo Borsellino e i suoi agenti della scorta, di tutti gli uomini trucidati dalla banda della Uno Bianca, del suicidio (?) di Attilio Manca. Io sono morto, conosco le vere storie di tutti, che quasi mai sono quelle che vi fanno conoscere. Ma una cosa alla volta, adesso vi ho parlato di me e, se lo gradite, ci saranno altre occasioni in cui inizierò a narrarvi le vere storie di tante, troppe persone perbene che, come me, sono state prima uccise e poi oltraggiate per non far trapelare verità scomode.

Grazie.

Fonte: vivi.libera.it

Tratto da: 19luglio1992.com

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