di Angela Romano e Gianni Pucci* - Video
Festeggiare il compleanno, e con esso la vita, è una pratica antichissima ma ha senso festeggiare il susseguirsi degli anni dopo la morte? Se il compleanno è il giorno in cui si ricorda una nascita, il giorno della nascita di una persona resta tale anche dopo la sua morte.
Per questo oggi 15 settembre, giorno della sua nascita, vogliamo ricordare Umberto Mormile ed abbiamo pensato di farlo insieme a chi, naturalmente e tradizionalmente, è presente ad un compleanno: un fratello, il fratello Stefano Mormile.
In questa affettuosa chiacchierata con Stefano, dai tratti a volti intimistici, dimentichi di chi ci ascolta via web, riaffermiamo con ostinata convinzione che non intendiamo arrenderci ad una giustizia minorata che sembra avere poco interesse a difendere la memoria di un giovane uomo delle istituzioni, barbaramente assassinato e strappato ai suoi affetti, a soli 37 anni. Lo ricordiamo, e continueremo a farlo, perché siamo tra coloro che vogliano preservare la verità dagli sfregi delle intossicazioni processuali (cit. da la Repubblica delle stragi, ediz. PaperFirst).
Umberto è stato assassinato a Milano più di 30 anni fa, l’11 aprile del 1990, dalla ‘ndrangheta. Era un educatore carcerario che lavorava alla costruzione del nuovo carcere a “misura d’uomo”, uno dei primi educatori dopo la riforma, senza dubbio uno dei più preparati ed appassionati, il più conosciuto e carismatico, le cui attività lavorative hanno fatto scuola in tutte le carceri italiane.
I due giorni più importanti della vita sono il giorno in cui nasci ed il giorno in cui scopri il perché sei nato (cit. Mark Twain):
ebbene Umberto Mormile scopre perché fosse nato nel 1976, alla soglia della laurea, quando interrompe gli studi di giurisprudenza e diventa poliziotto penitenziario nel carcere di Civitavecchia. Dopo due soli anni, grazie alla sua competenza e passione, da profondo conoscitore del mondo carcerario e delle sue dinamiche, diventa educatore carcerario, uno dei primi dopo la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 (L. n. 354/1975) che mette finalmente in pratica, dopo molti anni, un dettato costituzionale rimasto per molto tempo inattuato, sostituendo definitivamente il regolamento carcerario fascista del 1931. L’art. 27, comma 3 della Costituzione, stabilisce: Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Il principio base di questa concezione è che la pena possa e debba essere rieducativa e debba includere una serie di attività e misure finalizzate al reinserimento sociale del detenuto.
Ai fini del trattamento rieducativo, al detenuto deve innanzitutto essere assicurato il lavoro, sia all’esterno che all’interno del carcere.
L’educatore Umberto Mormile è un profondo e geniale innovatore fin da subito, traduce l’applicazione della riforma carceraria in progetti culturali ed educativi così lungimiranti e di spessore da essere esportati come “buone prassi” dappertutto. Il successo è tale che non ci si accontenta di adottare nelle carceri il “metodo Mormile”, si vuole avere Umberto in prima persona. Ne conseguono asfissianti corteggiamenti da parte di molte direzioni carcerarie ma solo nel 1987 Umberto accetta il trasferimento al nuovo carcere di Milano Opera, una realtà complessa in cui risulta necessaria una figura esperta e di alto profilo come la sua.
Ad Opera Umberto lavora con tutta la sua passione, da integerrimo uomo delle istituzioni, fino a quel 11 aprile del 1990 quando, fermo ad un semaforo, è ucciso da due killer in moto: Antonio Schettini e Antonino Cuzzola, su mandato dei boss della ‘ndrangheta Domenico Papalia, Antonio Papalia e Franco Coco Trovato. Il delitto è rivendicato dalla Falange Armata carceraria.
Inizia così la storia giudiziaria dell’omicidio Mormile, una storia unica nell’intero panorama giudiziario nazionale, condizionata fin da subito da silenzi, verità parziali che hanno sconfinato nelle bugie, omertà istituzionale. Una storia giudiziaria pesantemente condizionata dalle relazioni occulte tra due mondi, naturalmente occulti, come sono quello delle carceri e quello dei servizi segreti. I soli a condurre indagini, a produrre documenti, in quanto realmente interessati all’accertamento puntuale della causale dell’omicidio, sono i familiari di Umberto e la sua compagna, Armida Miserere.
Come si può in questo contesto superare la morte di una persona cara? Nel processo di elaborazione del lutto, seppur conseguente ad una barbara uccisione, i familiari tendenzialmente possono arrivare ad uno stato di accettazione, è solo questione di tempo, i “manuali di psicologia” ci dicono almeno 18 mesi. Non può essere, però, così nel caso della morte di Umberto, ucciso innumerevoli volte, perché se le ragioni del depistaggio, di chi lo ha tacciato di corrotto strumentalmente, senza riscontri oggettivi, possono non rappresentare un ostacolo al processo verso l’accettazione della perdita, costituiscono invece ostacoli insormontabili le gravi omissioni di chi ha il dovere di fare luce sulla morte di un integerrimo servitore dello Stato: le Istituzioni preposte, le sole responsabili della mancata traduzione di una più che accertata verità storica in verità giudiziaria.
La morte di Umberto Mormile fu decisa per continuare a tenere nascosti i rapporti fra ‘ndrangheta e servizi. Questa relazione strutturata è emersa chiaramente nel processo ‘Ndrangheta stragista di Reggio Calabria. Umberto è stato massacrato per coprire un segreto, Umberto è stato coperto di fango e condannato a non avere giustizia per permettere a tanti di tacere su un pezzo di vergognosa storia della Repubblica che ancora non si vuole raccontare. Lo ha riaffermato, ancora una volta, l’inchiesta del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo che ha evidenziato come l’omicidio Mormile rimanga uno dei simboli del patto sporco fra pezzi di Stato, i servizi addestrati alla scuola delle operazioni sporche, e le mafie. Mormile aveva visto con i propri occhi gli effetti di questo scellerato patto nel carcere di Opera in cui lavorava e per questo, con tanto di “benestare” dei servizi, è stato massacrato.
La famiglia Mormile, tramite l’avvocato Fabio Repici, continua a chiedere un nuovo processo per andare a fondo sull’omicidio di Umberto. Stefano e Nunzia Mormile hanno rivolto, a tal fine, numerosi appelli accorati, l’ultimo nell’agosto scorso è stato rivolto direttamente al ministro della Giustizia Bonafede che è anche il “capo” di Stefano Mormile, dipendente del Ministero della Giustizia. Dal ministro nessuna risposta!
Un silenzio decisamente assordante che non potrà cancellare la Memoria di Umberto Mormile, fatta di una vita intensa, di passione, di competenza che lo avevano reso un punto di riferimento professionale nazionale.
Noi continueremo a parlarne, lo faremo ancora nelle scuole appena avremo definito le modalità per tornare ad incontrare i ragazzi nel rispetto delle regole dettate dal COVID 19. Lo faremo nell’immediato futuro, in un’intervista alla radio universitaria di Perugia. Lo faremo grazie alla sensibilità di chi supporta il Gruppo delle Agende Rosse di Perugia e del Trasimeno, come l’artista Giuliana Capocchia che ha voluto contribuire a preservare la memoria di Umberto in un disegno a matita, dono per la famiglia Mormile, rappresentandone le passioni: la musica classica, il teatro di Edoardo, la passione per il suo lavoro, la battaglia per tradurre la verità storica in verità giudiziaria, nel disegno simboleggiata dalle fiamme della giustizia che alte scaturiscono dall’Agenda Rossa di Paolo Borsellino per cancellare definitivamente depistaggi ed omertà. Perché ne siamo certi, come afferma Stefano Mormile, sicuramente se Umberto fosse ancora vivo sarebbe “un’Agenda Rossa” che con il cucchiaino cerca di svuotare il mare nella ricerca della Verità e della Giustizia.
Tratto da: 19luglio1992.com
* Movimento Agende Rosse, Gruppo Umberto Mormile di Perugia e del Trasimeno