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gaspare mutolo mfia non lascia tempodi Gian Domenico Mazzocato
Gaspare Mutolo nasce a Palermo il 5 febbraio 1940, nel quartiere di Pallavicino. Famiglie povere ma fortunate, se l’educazione di un figlio viene assunta da Cosa nostra. Pochi metri dalla casa natale di Giovanni Falcone, lo stimato nemico cui sceglierà di confessare. Falcone, dice Mutolo, fu ucciso non per il maxiprocesso, ma per la frase sulla mafia “non invincibile”.
La sua è la carriera di chi vuole “pelle da coccodrillo”. Niente scuola. Banditello di quartiere, diversi gradi di iniziazione mafiosa, “soldato” pronto a tutto della famiglia di Partanna-Mondello. Uomo fidato, usato per trovare compromessi. Il Pacificatore, lo chiamano.
Lui, Gaspare Mutolo, è molte cose. Killer e testimone di eventi che coinvolgono personaggi di primo piano. Fino alla stagione delle stragi, 1993. Via dei Georgofili a Firenze, san Giorgio al Velabro e san Giovanni in Laterano a Roma, via Palestro a Milano.
Soprattutto è il primo collaboratore di giustizia che viene dalla truppa di Totò Riina. Dissociato, non pentito. Ci tiene. Ha aiutato Riina a diventare il numero uno, ne ha raccolto le confidenze. Riina non ama il denaro. La molla è il potere. Per arrivare in cima si ruba. Si uccide per un sospetto, per un cambio di umore. Mutolo l’ha abbandonata, questa spietata macchina di male.
Cosa spinge un mafioso a passare dall’altra parte? Che accade nella sua anima? Il collaboratore di giustizia è costruttore di una realtà “altra”? È invece uomo attraversato da una crisi di coscienza? O entrambe le cose? Anna Vinci (Gaspare Mutolo. La mafia non lascia tempo, Chiarelettere, 238 pag., 16 e.) fa parlare Mutolo in presa diretta. Lui ha annotato, inventariato. Un fiume, una rivelazione dietro l’altra. In testa ha cronologie rigorose. Prima e dopo il reato di associazione mafiosa, prima e dopo che Riina desse la scalata alla Commissione e ne svuotasse il potere accentrandolo in sé, prima e dopo quel 10 febbraio 1986 in cui iniziò il maxiprocesso, prima e dopo che la legge Rognoni-La Torre introducesse il 416 bis. Luoghi, situazioni, nomi. Ricorda perfino l’espressione negli occhi delle vittime un attimo prima di ucciderle. Con qualche smemoria, a sua volta significativa. Era così normale uccidere che il suo primo delitto si annebbia nell’oblio. Ma le grandi trame segrete, quelle sì. Con precisione assoluta. Berlusconi di cui si progettava il rapimento ma che era protetto da Vittorio Mangano, lo “stalliere”; Andreotti la cui ombra si proietta su un giro spaventoso di falsificazioni monetarie (in una certa tipografia furono stampate tante banconote nigeriane da rovinare quel paese); Sindona che, ridotto sul lastrico dal crac della sua Franklin National Bank (buco di un miliardo di dollari), era braccato dai creditori, soprattutto mafiosi.
La mafia è sistema e non tollera intoppi. Davanti alla Vinci, Mutolo dispiega un universo sconvolgente popolato di giornalisti compiacenti, di magistrati più o meno collusi. Con arsenali di armi in vista, esibite per intimorire. E poliziotti che girano la testa dall’altra parte.
Oggi Mutolo è un uomo inquieto. Dà un’occhiata allo specchietto ogni volta che sale in macchina. Fa i conti con la “traccia di violenza” che persiste in lui. Si è raccontato ai figli. Per loro, dice, si è dissociato. Di mestiere fa il pittore, pittura naïf. Non è molto tempo che nei suoi quadri tratteggia forme umane. Anche uno come lui può coltivare speranza.
Una appendice / intervista completa e aiuta a mettere a fuoco. Anna Vinci è scrittrice e giornalista di spessore. Romanziera e biografa di Tina Ansemi, è curatrice dell’archivio della parlamentare di Castelfranco. Dando voce a Gaspare Mutolo, ha scritto un buon libro. Certo, la verità di un uomo che ha ucciso e tradito e poi è stato (forse) dilaniato da una crisi di coscienza. Ma resta l’imperdibile e credibile documento di una vicenda umana che è certamente complessa e appartiene alla più generale complessità di questo paese.

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