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di Valentina Tatti Tonni
“Ho aspettato quattro anni, so di aver perso il posto di lavoro per non aver fatto nulla, solo per aver denunciato, perciò ho la coscienza a posto. Io sono arrabbiato perché la mia famiglia in questa città non ha l’occasione di avere un piccolo posto di lavoro, anche solo per mia moglie attendendo io il reintegro sul posto di lavoro, per poter sostentare la mia famiglia. Non è che chiedo altro, io non chiedo soldi… ma in queste condizioni io devo poter dare una stabilità, la cartella, il portacolori, i quaderni, le penne e le matite ai miei figli per andare a scuola. Perché gli ultimi soldi che avevamo io e Valentina (sua moglie, ndA.) li abbiamo spesi per comprare tutti i libri e avendo una bimba in prima media, mi intendi, pur a reddito zero devi pagarli. E adesso siamo in una condizione… Senza casa, senza lavoro”.
Le parole sono di Jvan Baio (in foto), di cui ho raccontato la storia l’anno scorso in un articolo che trovò molte resistenze prima di essere pubblicato su VoxPublica.it. Ma perché, Jvan e la sua famiglia, versano ora e ancora in questa condizione di disagio se da cittadini non hanno fatto che il loro dovere cioè quello di denunciare il malaffare? Bisognerà forse fare un passo indietro.
Jvan Baio è stato un operaio della Isab Srl, nel complesso industriale di Siracusa, per sei anni, ma non ci lavora più dal marzo del 2015. Attualmente, come mi spiegherà, ha aperti due processi: uno per tentare il reintegro del posto di lavoro, l’altro penale contro Vella, Cassia, Riani e il clan Bottaro-Attanasio che però aspetta ancora la sentenza di primo grado. Tutto inizia da un centro ricreativo, che lui apre insieme a dei colleghi due anni prima del licenziamento. Uno dei suoi soci era tale Luca Vella, il quale verrà condannato in primo e secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa ma assolto in Cassazione. Vella nel centro ricreativo vedeva una fonte di guadagno e di copertura ai traffici illeciti che aveva in mente, come scommesse illegali e spaccio di droga. Inaccettabile per Jvan ma alla sua ribellione seguirono minacce e intimidazioni. Arrivarono ad incendiare l’ingresso del negozio per parrucchiere del fratello, dopo aver inutilmente preteso un pizzo dagli 8 ai 60mila euro. Come scrivevo l’anno scorso, gli atti intimidatori sarebbero cessati se Jvan si fosse deciso a corrispondere il pagamento, di cui una parte a loro dire sarebbe servita per sostenere le spese di detenzione di Pasqualino “Lino” Mazzarella, uno dei reggenti del clan Bottaro-Attanasio e cugino di Luca Vella, che la Corte d’Assise di Siracusa nel 2016 condannò all’ergastolo in primo grado per omicidio e occultamento di cadavere di Liberante Romano, altro esponente dell’ominimo clan. Luca Vella, tra l’altro, farà entrare nel giro anche un altro esponente del clan che diventerà socio del centro di scommesse illegale, tale Concetto Cassia. A mediare su quella situazione sarà chiamato Antonello Palermo, sul quale la Squadra Mobile di Siracusa sollecitata della Procura di Catania precisò che pur non risultando precedenti penali a suo carico si riteneva fosse “vicino, se non inserito al contesto delinquenziale catanese del clan Cappello”.
Gli altri indagati nel processo penale in corso istruito dalla Procura e dalla Dda di Catania sotto il Sostituto Procuratore Andrea Ursino, sono Massimiliano “Puffo” Riani già noto alle forze dell’ordine per droga e furti, mentre per le minacce Luciano De Carolis, Concetto “Cuncittazzo” Garofalo, Sebastiano “Seby” Garofalo e Michele “Michiluni” Midolo, tutti appartenenti al clan Bottaro-Attanasio.
È forse bene ricordare che sono tre le famiglie che a Siracusa si gestiscono il potere con estorsioni e spaccio di stupefacenti. Il clan Aparo-Trigila insieme al clan Crapula, il clan Nardo con la famiglia di Santa Panagia che ha rapporti con la famiglia etnea Santapaola, il clan Bottaro-Attanasio. Il capomafia di quest’ultimo è Alessio Attanasio da tempo detenuto al 41bis nel carcere di Spoleto, sposato con Patrizia Bottaro, figlia del boss Salvatore, nonostante i due si siano separati il clan porta ancora i loro nomi. Il reggente del clan prima che venisse arrestato era Luciano De Carolis, che insieme e Pasqualino Mazzarella e Concetto Garofalo (condannato a otto anni per mafia ed estorsione ma ai domiciliari rispedito in carcere nel 2017 dopo il caso del “concerto neomelodico”) formavano il triumvirato del clan siracusano.
Quando Jvan scoprì che Vella era dedito a consumare e spacciare droga anche in raffineria lo denuncia ai piani alti sperando fossero presi dei provvedimenti. Azione che incredibilmente gli si ritorce contro finendo per subire minacce e pressioni anche in azienda, fino al licenziamento che, ad oggi la Isab, rispetto alla causa lavorativa in corso, ritiene essere stato giustificato. Si attende, oltre al lento sovraccarico della burocrazia, la relazione del CTU preposto dal giudice, ovvero la consulenza tecnica che dovrà valutare la documentazione precedente il licenziamento e decidere sulla fattibilità o meno di un reintegro sul posto di lavoro. “Potrebbero fare un passo indietro dato che ci sono delle evidenze, delle sentenze, delle archiviazioni, dei processi in corso, si pulirebbero anche da quel puzzo che c’è ancora di mafia, di omertà, di accanimento contro una famiglia che ha denunciato” mi dice con voce straziata.
Da uomo, da marito e da padre, Jvan non sopporta il peso di non poter provvedere dignitosamente alla sua famiglia, mi dice giustamente che non vuole elemosinare soldi ma vuole solo un lavoro che oggi non ha più, che oggi la comunità sembra negargli per dispetto e per indifferenza, addirittura scansato e rifiutato perché persona non gradita. Mi parla di “carcerazione preventiva”, la sua e quella della sua famiglia, questa non-vita che sono costretti ad avere sballottati da una casa e da una stanza all’altra, ospitati da amici e parenti, qualche giorno in macchina o in tenda, sulla spiaggia, facendo finta di stare in vacanza, un mese qui e un mese là, spostando e ricostruendo. Senza cedimenti, marito e moglie si spalleggiano per i loro figli, sopportano, si arrabbiano, cadono, si rialzano. Le vittime di mafia in questo Paese non sono solo quelle defunte, ma sono quelle isolate, quelle irretite nella farraginosa ed esasperata macchina della Giustizia che arranca e si perde per strada la gente, quella che pur esausta e spaventata da un futuro incerto in lei vede la salvezza e comunque denuncia. Ma quanto costa. “Di quale peccato io mi sono mai macchiato per avere tutta questa indifferenza? - chiede e lascio la domanda aperta - Questo macello che ci stanno facendo alla nostra famiglia e alle famiglie di chi denuncia, perché dobbiamo pagarlo noi aspettando una Giustizia che ci mette dieci anni prima di dare delle sentenze?”.
(5 Settembre 2019)

Tratto da: laspia.it

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