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cuorineridi Carmine Donatelli
La Sacra Corona Unita e, in genere, la criminalità organizzata pugliese sono considerate, a torto, mafie o attività criminali di secondo piano. Nonostante la crudeltà con cui continuano a imporsi sui territori i media, di rado, accendono i riflettori su queste organizzazioni, come invece fanno su Camorra, Mafia e ‘Ndrangheta, che da sempre hanno regolato l’economia di un territorio, indirizzato le stagioni politiche ramificando i propri tentacoli lungo la penisola e raggiungendo anche paesi esteri. In questo vuoto si inserisce Simona Pino d’Astore con il suo romanzo d’esordio “Cuorineri” (Graus Edizioni euro 15,00). Un lavoro convincente, che si dipana intorno alle storie vere di tre boss: Franco Altavilla, detto “14”, Luigi Narcisi “il Pazzo” e Luigi Patisso “il direttore”. Sullo sfondo la città di Brindisi deturpata dal contrabbando, dallo spaccio e dalla corruzione. Le vite dei tre boss, che da ragazzi di strada, nati in un luogo dove la battaglia quotidiana per sopravvivere è sfociata in una guerra, compiono il grande salto occupando posti apicali nell’organizzazione criminale, si intrecciano tra loro tenendo alta l’attenzione del lettore grazie alla penna della d’Astore che offre continui colpi di scena, fino all’ultima pagina quando si scrive un finale insolito e insperato. Ma il primo punto importante che la d’Astore fissa nel suo romanzo è una data, quella del 23 febbraio 2000 quando, durante una delle tante operazioni di anti contrabbando, muoiono i finanzieri Antonio Sottile e Alberto De Falco perché mentre sono a bordo della loro auto di servizio vengono speronati da un blindato guidato dai contrabbandieri. Fino a questo momento il contrabbando ha garantito la circolazione di tanto denaro, offerto un’occupazione a migliaia di famiglie, impedito per tanti anni ogni tipo di reato e mantenuto tranquilli gli appartenenti alla malavita locale. Gli sbarchi delle “bionde” provenienti dall’Albania e dal Montenegro sono diventati dei veri e propri spettacoli ai quali in tanti vogliono assistere, addirittura prenotando un tavolino in bella vista nei diversi locali che si ritrovavano a ridosso dei luoghi di sbarco. Non solo spettatori, ma anche centinaia di operatori del settore che si adoperano per lo scarico e il carico della merce che in due o tre minuti viene trasbordata dai natanti ai blindati. Un commercio durato interrottamente per tantissimi anni sotto gli occhi inermi di uno Stato consenziente e consapevole, che ha lasciato correre garantendo questa pace sociale. Ma dopo la morte di questi due giovani finanzieri lo Stato per la prima volta fa sentire la sua presenza, con l’Operazione Primavera, in questa terra di nessuno creando, così, un corto circuito, facendo calare a picco il Pil di affiliati e fiancheggiatori che dalla sera alla mattina dalle coppe di champagne passano nell’anticamera di sindaci e politici compiacenti chiedendo un posto di lavoro perché adesso sono diventati tutti padri di famiglia in cerca di un’occupazione. Cinquant’anni di commercio del malaffare cancellati con un solo colpo di spugna e soprattutto con il beneplacito di coloro che, restando aggrappati alla parvenza di rappresentare la parte buona della società, ne hanno usufruito alla grande. Nel mezzo una criminalità costretta a cambiare obiettivi e strategie, una criminalità che deve rinnovarsi decapitando i vecchi capi sostituendoli con giovani rampanti e pronti a tutto perché bramosi di denaro e potere. Messo da parte il contrabbando si passa al traffico della droga, a quello delle armi fino alle estorsioni. Le pagine scorrono velocemente, senza intoppi, anche se la d’Astore avrebbe fatto meglio a ridurre la divisione dei capitoli, ma questo certamente non impedisce al romanzo di decollare e al lettore di rimanere affascinato e di stucco in occasione di una riflessione conclusiva che mette a nudo una triste e amara verità. La d’Astore la serve sul piatto con chiara e lucida freddezza intingendola come un tozzo di pane amaro nel brodo di una minestra strappata coi denti in nome del bisogno: “Lo Stato ha solamente indebolito quel senso di appartenenza all’identità criminale, tentando l’impresa e riuscendoci solo in parte, ma poi delegando i poteri folkloristicamente - chissà aggiungiamo noi se per sola carenza di uomini o per mancanza di volontà - alle associazioni che si professano antimafia, poiché troppo lontano e barricato in un parlamento incastrato nelle sue stesse leggi, per sentire il grido disperato di chi credeva ancora nelle istituzioni”.

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