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di Guido Casavecchia - Intervista
Il comitato Antimafia Channel intervista Joselle Dagnes, docente di sociologia economica presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino. Svolge attività di ricerca sulla regolazione formale e informale dei mercati finanziari e sui processi espansivi delle organizzazioni mafiose in aree non tradizionali. E’ membro di LARCO (Laboratorio di analisi e contrasto alla criminalità organizzata dell’Università di Torino). Tra le sue pubblicazioni più recenti sul tema delle mafie: Mafia infiltration, public administration and local institutions: A comparative study in Northern Italy (in European Journal of Criminology, 2018); Le mafie italiane all'estero: un'agenda di ricerca (in Meridiana, 2016); Infiltrazioni mafiose e malaffare. Un caso di studio nella regione Valle d’Aosta (in Politiche Sociali, 2015); Geografia degli insediamenti mafiosi. Fattori di contesto, strategie criminali e azioni antimafia e L’area grigia in Lombardia: imprenditori, politici, mafiosi entrambi in Mafie del Nord. Strategie criminali e contesti locali, a cura di R. Sciarrone, Donzelli, prima ed. 2014, nuova ed. 2019.

Dottoressa Dagnes, in base ai suoi studi sul Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta, quale tipo di presenza mafiosa vi è nei c.d. luoghi non tradizionali di insediamento?
Bisogna premettere che possiamo fare considerazioni soltanto a partire da quanto emerge dal materiale giudiziario, cioè solo su quella parte di fenomeni che viene alla luce. Non possiamo, quindi, avere la certezza che le differenze che osserviamo nei diversi contesti corrispondano a differenze che il fenomeno ha in sé a livello territoriale e che non siano invece semplicemente dovute al diverso tipo di indagini effettuate. Ciò che sappiamo comunque in termini generali è che sia in Piemonte sia in Lombardia è attestata una presenza territoriale mafiosa importante e di lunga data. E’ una presenza stabile, con forme di controllo del territorio che, seppur diverse da quelle che si possono osservare in contesti mafiosi tradizionali, sono comunque molto pervasive.

Le mafie hanno assunto metodi di adattamento diversi in base alle Regioni della Lombardia, del Piemonte e della Valle d’Aosta?

In tutti questi casi si parla sempre, soprattutto, di gruppi di ‘ndrangheta fortemente innervati con il contesto socio-economico locale, la politica locale e appunto con una presenza di lunga data.
In Lombardia, al momento, sembra emergere una contaminazione profonda del tessuto economico locale. In Piemonte, invece, soprattutto nella zona del Canavese, si sono osservate contaminazioni rilevanti con la politica locale.
In Valle d’Aosta recentemente è stata emessa un’ordinanza di custodia cautelare frutto dell’inchiesta denominata Geenna. Il processo deve ancora cominciare e alcune indagini sono ancora in corso, quindi c’è molto che non è ancora noto e non ci sono risultanze probatorie certe, ma il quadro che emerge è molto interessante. Precedenti indagini (a partire da quella denominata Lenzuolo del 2001 fino alle più recenti Minotauro e Tempus Venit) avevano evidenziato la presenza di singoli soggetti mafiosi in Valle d’Aosta, ma non di strutture organizzate sul territorio. La tesi della Procura di Torino in Geenna, invece, è che esista una locale di ‘ndrangheta in Valle d’Aosta. Tre degli indagati appartengono direttamente alla sfera politica locale. Due sono indagati ai sensi dell’art. 416 ter c.p. (scambio elettorale politico-mafioso), il terzo addirittura ai sensi dell’art. 416 bis c.p. (quindi un politico locale, nel caso specifico un consigliere comunale del Comune di Aosta, presunto appartenente a un’associazione a delinquere di tipo mafioso). Il fatto che la Valle d’Aosta sia una Regione autonoma, con una serie di prerogative che derivano dalla specialità del suo Statuto, le conferisce una capacità di spesa notevole in opere pubbliche locali rilevanti. Di conseguenza, le mafie hanno estremo interesse a intrattenere rapporti con l’ambiente politico e amministrativo locale grazie al quale possono orientare decisioni relative all’assegnazione di lavori pubblici.

In conseguenza di questa presenza di lunga data, le famiglie criminali locali hanno trovato linfa vitale nei giovani mafiosi del territorio, o sono state innervate da nuove generazioni di mafiosi provenienti dall’esterno?

Nella maggior parte dei casi si tratta di giovani nati già nel contesto d’arrivo, oppure nati in altri territori ma poi cresciuti nelle Regioni d’arrivo.
In Lombardia spesso si osserva il coinvolgimento criminale di soggetti che non hanno origini calabresi (quando parliamo di ‘ndrangheta), ma che sviluppano nel tempo stretti legami con gruppi mafiosi locali e che in alcuni casi arrivano anche all’affiliazione mafiosa.
In Piemonte recentemente è emerso il caso di soggetto, poi diventato collaboratore di giustizia, nato nella cintura di Torino da famiglia napoletana, cresciuto in un contesto legato alla piccola criminalità di strada ma non contiguo alla criminalità organizzata, che ha ricercato attivamente un rapporto con ‘ndranghetisti con l’obiettivo di poter essere prima o poi affiliato, cosa che gli era stata peraltro promessa. Il suo percorso criminale di avvicinamento alla ‘ndrangheta è stato, quindi, inedito rispetto a ciò che si osserva in contesti tradizionali.
Più in generale, nelle aree non tradizionali, si osserva una maggiore porosità ed elasticità nelle modalità di affiliazione. Abbiamo, addirittura, casi di soggetti che passano da una locale di ‘ndrangheta a un’altra. E’ come se nei contesti non tradizionali alcune regole si allentassero.

Le ultime inchieste della magistratura piemontese (ad esempio le operazioni Carminius, Barbarossa e Alto Piemonte) si sono concentrare sulle presenze mafiose in alcune cittadine medio-piccole del Piemonte che prima sembravano immuni a queste penetrazioni.

Credo che questo non ci dica molto di un presunto spostamento delle mafie al di fuori delle grosse città, quanto della diffusione della presenza mafiosa nel territorio. Da quanto emerso in contesti anche diversi dal Piemonte, una quota significativa delle presenze mafiose nei luoghi non tradizionali si concentra in Comuni di piccole e medie dimensioni. La scala del medio comune, forse, risulta più funzionale rispetto agli obiettivi dei gruppi criminali. Questo perché nei Comuni di solito tra i 20.000 e i 50.000 abitanti vi è comunque una rilevante concentrazione di appalti e di interessi economici. Si riesce, così, ad incidere meglio nella regolazione politica dell’economia locale. Si influenzano decisioni amministrative che riguardano affari appetibili anche se non giganteschi, ed anzi più facilmente gestibili per i gruppi mafiosi. In più, in questi contesti, probabilmente non c’è mai stata un’alta attenzione per i fenomeni criminali. Gli attori mafiosi, così, non sono eccessivamente al centro dell’attenzione delle agenzie di contrasto ma hanno un rilevante ruolo di regolazione del tessuto locale.

Quale percezione ha avuto, e ha, delle mafie il tessuto economico urbano nei luoghi non tradizionali?

Per studiare la percezione del fenomeno mafioso da parte degli operatori economici delle nostre Regioni, abbiamo condotto alcune indagini tra gli imprenditori del Piemonte (in particolare a Torino, Chivasso e Nichelino) e poi abbiamo replicato il modello di analisi in Lombardia, nella città di Milano. Ci siamo concentrati sugli imprenditori con un’attività che prevede una vetrina su strada, perché sono degli operatori immersi maggiormente nel tessuto economico locale e hanno un osservatorio privilegiato sui fenomeni criminali che hanno una certa visibilità e diffusione a quel livello. Nelle risposte ai questionari sottoposti abbiamo notato una certa consapevolezza del fenomeno e non una sua sottovalutazione. Emergeva anche una conoscenza discreta dei metodi mafiosi e una capacità di distinguerne i caratteri peculiari rispetto alla criminalità comune.

Come rispondono le istituzioni locali e la politica a tutto questo, o come dovrebbero?
Si oscilla sempre tra due poli. Da un lato la sottovalutazione o la negazione della presenza mafiosa. Non sempre perché ci sia una vera commistione con le mafie, quanto perché è difficile ammettere che il proprio territorio, che ci si rappresenta in un certo modo, non è stato in grado di arginarne la diffusione. Dall’altra parte c’è il rischio di un allarmismo generico che può risultare fine a se stesso. In mezzo mi sembra che ciò che c’è stato fino ad ora sia stato più astratto che concreto. Tante iniziative lodevoli di per sé (ad esempio l’istituzione di commissioni antimafia comunali o regionali), ma che raramente hanno perseguito obiettivi definiti. Questo perché alcuni attori antimafia faticano a trovare declinazioni concrete e capaci di incidere sul territorio del loro pur lodevole impegno. A mio parere, le iniziative più interessanti sono quelle che si sono poste come primo obiettivo quello di interrogare il territorio e individuarne i punti più vulnerabili. Si deve ragionare sulla storia dei fenomeni, sulle modalità di infiltrazione utilizzate dai soggetti criminali e sui varchi che hanno permesso di fare affari con le pubbliche amministrazioni o controllare certi settori. Anche gli operatori economici che abbiamo intervistato rivendicano una forte domanda di intervento delle istituzioni. Non è tanto una richiesta di interventi repressivi, una scelta che potrebbe apparire più semplice e che, spesso, è presente nel dibattito pubblico e mediatico. C’è, invece, l’esigenza di istituzioni capaci di presidiare il territorio e di intervenire nella regolazione economica ed economico-politica con scelte trasparenti e condivise. Laddove questo non accade, in effetti, è più facile che i soggetti mafiosi possano infiltrarsi.

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