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paolo borrometi articolo 21di Elisa Marincola
Le minacce e quelli che, secondo l’ordinanza del Gip di Catania, sarebbero stati i preparativi di un attentato omicida contro il presidente di Articolo 21 Paolo Borrometi sono certo l’ennesimo episodio di intimidazioni a un giornalista coraggioso, ma non sono solo questo. Episodio gravissimo, che però rischia di passare come fatto locale, attribuibile a stralci periferici di mafia ancora legata a una tradizione sanguinaria, se non viene inquadrato in uno scenario più vasto, a due livelli. Il primo livello, allargando lo sguardo, ci porta a un altro episodio, questo purtroppo mortale, avvenuto appena 24 ore prima dell’operazione contro il clan Cappello e i boss siracusani Giuliano e Vizzini. Un’autobomba nel vibonese, a poche centinaia di chilometri da Catania e Siracusa. Un uomo, incensurato, morto sul colpo, il padre gravemente ferito. Una storia di terreni contesi, hanno scritto, e pretesi da componenti di una delle ‘ndrine più potenti in Calabria e in mezzo mondo: la famiglia Mancuso. Inchiesta ancora in corso, troppo presto per tirare conclusioni. Ma quello che possiamo affermare senza paura di querele è che erano diversi anni che in Italia non si sentiva parlare di vittime di un’autobomba, un’arma di terrore, prima che di morte, che da noi è legata all’immaginario mafioso. Un’arma di terrore e di morte che ha visto la comparsa all’inizio degli anni ’60 in Sicilia. E più di recente nel foggiano, terra di mafia che non riesce neanche ad essere riconosciuta come tale. E sei mesi fa, a Malta, ha ucciso una coraggiosa giornalista: Daphne Caruana Galizia. Eppure, sarà per la periferia oscurata in cui è successo, sarà per la cronaca politica che da settimane occupa militarmente gli spazi informativi, l’autobomba di Limbadi non ha avuto molti spazi nelle prime pagine dei quotidiani. Ma non è un caso. Di mafie non abbiamo sentito più parlare da quando è iniziata l’ultima campagna elettorale, non certo perché non sia “la questione” per eccellenza in Italia, come ha provato l’ottima relazione conclusiva della commissione parlamentare d’inchiesta sulle mafie della passata legislatura. Questa disattenzione della politica per il crimine organizzato (e aggiungo la corruzione) porta al secondo livello dello scenario in cui va inserito l’attentato (per fortuna) sventato a Borrometi. Perché la stessa disattenzione la troviamo sull’altra emergenza italiana: l’attacco sistematico al diritto di cronaca, siano vere e proprie minacce e violenze, come per Paolo, o per Federica Angeli, Sandro Ruotolo o Giovanni Tizian e tante e tanti altri; siano minacce e insulti sui social, come di recente contro Report o contro Paolo Berizzi per i suoi articoli sulla deriva neofascista; siano querele temerarie con richieste di risarcimenti a molti zeri (l’ultima in ordine di tempo, a Nello Trocchia per 39 milioni di euro da parte di una università telematica); siano, dobbiamo dirlo forte, le ripetute perquisizioni e i sequestri di computer e telefoni da parte delle forze dell’ordine e della magistratura, una chiara lesione del dovere, prima che diritto, di proteggere le proprie fonti, uno dei fondamenti deontologici del giornalismo; e le imputazioni per ricettazione, o addirittura complicità a carico di cronisti rei di aver svelato trame e reati ignoti o essere arrivati a documenti e notizie di interesse pubblico inequivocabile. Ultimi casi, al Sole24Ore, alla Nuova Sardegna, o la condanna di Davide Falcioni, giornalista di Fanpage, condannato a quattro mesi di reclusione dal tribunale di Torino per aver documentato l’occupazione di un edificio in Val di Susa. In questo quadro composito vanno inserite le parole inquietanti del boss Giuliano: “Fallo ammazzare, ma che c…. ci interessa” e “Ogni tanto un murticeddu vedi che serve”. Le mafie hanno un’acuta intelligenza politica. Hanno capito la fase storica che stiamo attraversando, dimostrano un senso d’impunità allarmante. In più, sanno che i giornalisti sono un obiettivo facile contro cui scagliarsi, sanno d’incontrare persino il gradimento di potentati di ogni colore che abbiano qualcosa da nascondere o semplicemente vogliano libertà di manovra lontano da occhi indiscreti; ultimo episodio a Ivrea con la cacciata dell’inviato de La Stampa dalla riunione M5S, ma nessun partito è esente da episodi simili. Questo deve far riflettere le più alte cariche dello Stato, perché questa è un’emergenza democratica: il rinnovato senso d’impunità delle mafie e l’attacco sistematico da tutti i fronti al diritto di cronaca. Intorno, solo disattenzione e sottovalutazione. Roberto Saviano, commentando l’autobomba in Calabria, ricorda: il regalo più prezioso alle mafie non è fare affari insieme ma non conoscerle. Teniamolo bene a mente.

Tratto da: articolo21.org

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